L’avvento nel paese economicamente più forte dell’Unione di un governo a guida socialdemocratica e il conseguente ampliamento del numero di paesi membri governati da partiti o da schieramenti di sinistra hanno fatto credere a molti che l’Unione sia entrata in una nuova fase della sua storia. Questa sensazione è stata avvalorata da ripetute dichiarazioni di capi di governo, ministri e commissari, nelle quali l’accento è stato posto non più sull’imperativo del rigore finanziario, ma su quello della lotta alla disoccupazione. Una nuova Europa socialista si starebbe liberando dalle pastoie del Trattato di Maastricht e dei suoi criteri. All’epoca del rigore starebbe per succedere quella dello sviluppo.
Questo nuovo accento è il risultato della consapevolezza che il problema della lotta alla disoccupazione in Europa deve essere affrontato con urgenza, e può esserlo soltanto nel quadro dell’Unione. Ma i termini del problema vengono spesso presentati come se la lotta alla disoccupazione e il rigore finanziario fossero opzioni alternative e come se la scelta tra l’una e l’altra dipendesse dal colore politico della maggioranza dei governi dell’Unione. In realtà entrambe queste proposizioni sono false e pericolose. Il rigore finanziario rimane il fondamento di qualunque prospettiva di sviluppo in Europa. Il problema da risolvere, di conseguenza, è quello di mettere in cantiere una politica per l’occupazione che non provochi una dispersione di risorse, ma generi occupazione mediante la creazione di ricchezza reale. E questo obiettivo non è né di destra né di sinistra, ma la sua realizzazione è necessaria quale che sia l’orientamento della maggioranza dei governi europei.
Va da sé che per raggiungere questo obiettivo non si tratta di lasciare mano libera ai governi nazionali perché attuino in ordine sparso politiche autonome di rafforzamento della domanda. Ciò equivarrebbe ad un avallo all’abbandono puro e semplice, quantomeno da parte di alcuni governi, della politica della stabilità, e quindi al sabotaggio di fatto dell’Unione monetaria. Si tratta invece di promuovere un vero e proprio piano europeo di investimenti infrastrutturali, sul modello del Piano Delors.
Ma pensare che questo sia reso possibile dal solo fatto che la maggioranza dei governi europei è oggi a guida socialdemocratica sarebbe la più perniciosa delle illusioni. L’assetto istituzionale dell’Unione di oggi rende del tutto irrilevanti le affinità politiche transnazionali e dà espressione soltanto alla contrapposizione tra interessi nazionali. Finché esso rimarrà improntato al metodo intergovernativo, i rapporti tra gli Stati membri continueranno ad essere condizionati dalla diffidenza reciproca e dalla preoccupazione di ogni governo di ottenere piccoli vantaggi a breve termine pagando la minor parte possibile dei costi che ogni politica comune comporta. In queste condizioni l’elaborazione e l’attuazione di un efficace piano di investimenti per lo sviluppo sarà impossibile. Per questo è facile prevedere che la sola politica che i governi dell’Unione saranno in grado di fare, a meno di una radicale svolta istituzionale, consisterà in una serie di compromessi di basso profilo, che metteranno a repentaglio la stabilità finanziaria dell’Unione e dei suoi membri senza promuoverne realmente lo sviluppo. È vero che si tratterà di compromessi che i governi faranno avendo in vista il comune interesse a salvaguardare l’esistenza dell’Unione monetaria. Ma è anche vero che in possibili situazioni di emergenza la divaricazione tra gli interessi nazionali potrebbe aggravarsi al punto da rimettere in questione la stessa moneta europea.
Il fatto è che un piano europeo di sviluppo non significa un generico coordinamento delle politiche economiche dei governi dell’Unione, ma richiede che l’Unione si doti di una propria politica economica, liberando le risorse necessarie per attuarla senza venir meno all’esigenza del rigore grazie all’eliminazione degli enormi sprechi provocati dell’esistenza di quindici politiche industriali e di quindici piani territoriali diversi e faticosamente coordinati. Ma una politica economica europea implica anche che gli inevitabili squilibri che interesseranno in futuro la congiuntura, lo stato delle finanze e il mercato del lavoro delle varie regioni dell’Unione siano compensati da un adeguato trasferimento di mezzi finanziari. E questo sarà possibile soltanto se i meccanismi attraverso i quali si formerà nell’Unione il consenso democratico saranno tali da rendere possibile una solidarietà europea, cioè da superare l’idea stessa di interesse nazionale in nome di un comune interesse europeo.
Tutto ciò significa che il problema dell’occupazione in Europa potrà essere avviato a soluzione soltanto quando si smetterà di pensare all’Unione come ad una sorta di consorzio cui gli Stati sono tenuti a versare contributi dai quali sono legittimati ad aspettarsi un giusto ritorno; e si incomincerà a pensare ad essa come ad una patria comune alla quale i cittadini, beninteso nel rispetto del principio di sussidiarietà, avranno il dovere di pagare tributi commisurati al loro reddito, ricevendone in cambio le prestazioni e i servizi cui avranno diritto, indipendentemente dallo Stato di appartenenza. Ma questo comporta un governo democratico europeo, una lotta politica europea e un bilancio di dimensioni adeguate alimentato da una fiscalità – anche diretta – europea. In una parola uno Stato federale europeo. Si tratta di una conclusione che è imposta dalla logica implacabile della situazione e alla quale ci si può sottrarre soltanto a prezzo di mettere in pericolo la sicurezza e il benessere di tutti i cittadini dell’Unione. Per questo è essenziale che i partiti politici europei, in vista delle elezioni europee del 1999, inseriscano al primo punto dei loro programmi elettorali l’impegno a battersi per una costituzione federale europea.
Publius