La parola d’ordine della Costituzione europea si sta facendo strada nel dibattito politico in tutti i paesi dell’Unione, ed è stata fatta propria anche da uomini politici importanti e da influenti commentatori. Quella che nel Parlamento europeo era stata fino all’ultima legislatura la “Commissione istituzionale” si chiama oggi “Commissione costituzionale”. Questi sono sviluppi e fatti positivi, che hanno introdotto nel dibattito un termine che, riferito all’Europa, era fino a pochi mesi fa un tabù.
Ma la politica – e in particolare la politica dei sistemi in disfacimento – ha la caratteristica capacità di appropriarsi delle parole che hanno un forte contenuto simbolico, e quindi possono servire come strumenti per ottenere consenso, per svuotarle del loro contenuto, trasformandole in puri strumenti di propaganda. Ed è ciò che oggi sta accadendo con la parola Costituzione. Con alcune eccezioni – che peraltro riguardano essenzialmente il mondo degli studiosi e non quello dei politici – il termine “Costituzione europea”, con l’estendersi del suo impiego, è andato assumendo i significati più impropri e stravaganti, che vanno da una modesta riforma delle istituzioni dell’Unione (razionalizzazione della Commissione, modifiche nel voto a maggioranza in seno al Consiglio dei Ministri, imprecisati aumenti delle prerogative del Parlamento europeo), ad una pura e semplice delimitazione più precisa delle competenze dell’Unione rispetto a quelle degli Stati fino a giungere addirittura alla sola semplificazione della struttura e della terminologia dei Trattati esistenti.
In questo modo gli uomini di governo dell’Unione realizzano l’exploit di riconoscere che esiste in Europa un problema di trasformazione radicale e insieme di sottrarsi al dovere di trarre le conseguenze da questo riconoscimento. “Costituzione”, sia nella storia della cultura politica e giuridica che nella coscienza collettiva dei popoli che hanno vissuto l’esperienza della democrazia, significa Costituzione di uno Stato. Ma se questo è vero, il problema della Costituzione europea non è certo soltanto quello di redigere un testo, per quanto ben organizzato e comprensibile, ma quello di fondare un potere nuovo, cioè di costituire un unico Stato sovrano in un ambito che oggi è occupato da una pluralità di Stati sovrani. Non sarebbe nemmeno il caso a questo proposito di sottolineare che si tratterà evidentemente di uno Stato federale, che in quanto tale si ispirerà al principio di sussidiarietà, se da più parti non si tentasse insistentemente di distorcere il senso del principio di sussidiarietà, trasformandolo da principio regolatore della distribuzione dei poteri nell’ambito di uno Stato federale in pretesto per impedire che uno Stato federale venga ad esistenza.
Il problema è quindi quello di un trasferimento della sovranità dagli Stati nazionali all’Europa, cioè dai popoli nazionali al popolo europeo che si sta formando. Si tratta di un impresa enormemente difficile, come enormemente difficili sono state tutte le grandi trasformazioni storiche che hanno segnato le svolte del processo di emancipazione del genere umano. Il potere dei governi e la promozione di tutti gli interessi che si aggregano attorno ad essi dipendono dal mantenimento della sovranità. Per questo sarebbe insensato sperare che i governi europei siano indotti ad abbandonarla sulla base della sola constatazione della ragionevolezza del progetto, senza esservi in qualche modo costretti.
La verità è che i governi possono essere spinti a questo passo soltanto in una situazione di pericolo grave, nella quale i fondamenti stessi del lealismo dei cittadini nei confronti degli Stati nazionali vengano fortemente scossi. Molti sostengono che l’unificazione federale dell’Europa non potrà mai essere realizzata perché in realtà un popolo europeo non esiste. Ed è un dato di fatto che, fino a che i cittadini degli Stati dell’Unione continueranno a godere di una condizione di sostanziale benessere e di relativa sicurezza, essi non diventeranno protagonisti attivi del processo. Ma vi sono nella storia momenti in cui, grazie all’effetto congiunto delle circostanze obiettive, dell’azione di una minoranza consapevole, dell’attenzione della parte più sensibile della classe politica e della presenza di alcuni grandi leaders capaci di comprendere la natura dell’occasione che si presenta, un nuovo popolo – che prima esisteva soltanto in embrione – prende coscienza di sé e diventa possibile fondare un nuovo Stato. Nel caso dell’Europa si tratterà del momento nel quale la collaborazione intergovernativa non sarà più in grado di risolvere le contraddizioni sempre più gravi tra la dimensione europea dei problemi e quella nazionale delle forme di organizzazione del potere. Allora, se anche le altre condizioni si saranno verificate, i governi – o, quantomeno all’inizio, alcuni di essi – si vedranno costretti a rinunciare alla sovranità nazionale e a fare appello al popolo europeo in formazione per creare una nuova legittimità federale europea.
La guerra del Kosovo e l’affermazione in Austria dei Freiheitlichen di Haider sono soltanto i due episodi più recenti che dimostrano come le contraddizioni del processo di unificazione europea stiano diventando sempre più acute e frequenti. Si avvicina il momento nel quale la scelta sarà tra la fondazione della Federazione europea e la fine del processo, con l’esplosione dei micronazionalismi e la crisi delle istituzioni democratiche. In quel momento gli uomini di governo europei faranno la scelta giusta soltanto se entreranno in profonda consonanza con la parte migliore dell’opinione pubblica e delle classi politiche nazionali. E ciò potrà avvenire soltanto se, anche grazie alla costante presenza dei federalisti, si sarà sviluppato, all’interno del Parlamento europeo, dei Parlamenti nazionali e dei partiti democratici, un dibattito di crescente intensità e si saranno fatti sempre più frequenti ed incisive a tutti i livelli le iniziative per la rivendicazione del potere costituente del popolo europeo.
Publius