Quando quella dell’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale sembrava ancora una prospettiva lontana, molti uomini politici degli Stati dell’Unione si dicevano convinti della necessità di realizzare preventivamente un profondo rafforzamento delle sue istituzioni. Essi erano consapevoli che esso sarebbe stato indispensabile per consentire all’Unione di reggere all’urto dell’ingresso dei nuovi paesi e per evitare che essa si trasformasse in un’area di libero scambio, priva di qualsiasi forza di propulsione politica e di qualsiasi legittimità, e quindi destinata a termine a dissolversi. Ma quando, con l’avvicinarsi delle scadenze, si è posto il problema di prospettare scelte concrete, le varie presidenze di turno si sono dimostrate incapaci di avanzare proposte che non fossero del tutto inconsistenti. Il processo è culminato con il fallimento di Nizza, dal quale l’Unione è uscita indebolita nelle sue istituzioni e nel suo prestigio.
Il risultato del referendum irlandese non ha fatto che mettere ancor più in evidenza uno stato di incapacità decisionale e di confusione che di fatto era già palese. Esso si ripercuote sullo stesso processo di allargamento, che avanza perché è nella natura delle cose, ma lo fa tra mille reticenze, ambiguità e rallentamenti. L’avventura dell’unificazione del continente, che ha consentito all’Europa occidentale di godere di mezzo secolo di pace e di prosperità, sta quindi minacciando seriamente di fallire. L’alleanza franco-tedesca, che fino ad oggi è stata il motore del processo, rischia di spezzarsi, ridando spazio, negli Stati dell’Unione, a tendenze nazionalistiche o micronazionalistiche, protezionistiche e autoritarie.
È legittimo sperare che l’Unione attuale, e a maggior ragione un’Unione allargata, possa portare a compimento negli anni a venire ciò che essa non è stata capace di fare fino ad oggi? La risposta è no. Non ci si può rifiutare di prendere atto che l’atteggiamento della classe politica e dell’opinione pubblica nei confronti non solo della prospettiva di un’unificazione federale dell’Europa, ma di qualsiasi prospettiva di rafforzamento delle istituzioni dell’Unione, rimane fortemente contrario in Gran Bretagna e nei paesi Scandinavi, ed evolve negativamente anche in alcuni paesi tradizionalmente favorevoli. I paesi candidati, che, malgrado le difficoltà, verranno associati sempre più strettamente, anche se dapprima in modo informale, ai meccanismi decisionali dell’Unione, dichiarano apertamente di non avere alcuna intenzione di rinunciare ad una sovranità da poco riconquistata. La verità è che, nel fragilissimo quadro dei Quindici, un dibattito serio su questo tema non può nemmeno cominciare, e anche proposte di riforma timide e minimalistiche vengono respinte da alcuni governi come inaccettabili minacce alla sovranità nazionale. Quella che l’Unione giunga a darsi una nuova struttura istituzionale, democratica e capace di agire, nel quadro attuale o addirittura in un quadro allargato, è quindi un’illusione che è giunto il momento di dissipare.
Molti uomini politici in Europa, anche se non vedono con chiarezza l’obiettivo dell’unità federale, sanno che la salvezza del continente passa per un rafforzamento radicale delle istituzioni dell’Unione. Ma le loro dichiarazioni e le loro proposte, fino a che vengono avanzate nell’attuale quadro a quindici, per di più in procinto di allargarsi a venti o venticinque, suonano inevitabilmente come velleitarie e propagandistiche. È urgente che essi si rendano conto del fatto che in questo quadro qualunque progetto che si proponga di realizzare una solida unione politica, quale che sia la sua forma, è ormai divenuto impraticabile . E qualcuno sembra incominciare a capire che la sola via attraverso la quale il processo può riprendere e diventare irreversibile è quella di un cambiamento del quadro.
Ciò significa che il solo modo per ridare credibilità all’obiettivo dell’unità politica del continente è quello di rilanciare il processo a partire da un gruppo ristretto di paesi che sia abbastanza solido e compatto da poter esprimere con forza la volontà di andare avanti. Questo gruppo non può essere costituito che dai sei paesi fondatori, legati da una lunga esperienza di integrazione, e la cui opinione pubblica, pur se resa meno partecipe dalla crescente lontananza delle istituzioni europee dai cittadini, mantiene ancora un orientamento fortemente favorevole all’Europa. È questo il solo quadro nel quale il motore franco-tedesco ricomincerebbe a funzionare e a manifestare la sua forza unificante e sarebbero sconfitte le forze che in Germania premono per l’allontanamento dalla Francia e per la creazione di un’area di influenza tedesca sull’Europa dell’Est. E questo è il solo quadro nel quale si può porre in termini credibili il problema della fondazione di un nucleo federale.
È su questa linea che corre lo spartiacque che divide oggi coloro che vogliono l’unificazione europea da coloro che non la vogliono. Non per nulla questo è il punto sul quale le reazioni dei governi più tenacemente attaccati alla loro sovranità sono più duramente negative. E si deve notare che l’unificazione politica nel quadro dei Sei sarebbe il solo modo per consentire al processo di allargamento di continuare senza pericoli di crisi e vincendo ogni resistenza, perché essa creerebbe all’interno dell’Unione europea un punto di consistenza che non solo avrebbe la forza di opporsi alle attuali tendenze alla disgregazione e di evitare che l’Unione smarrisca la sua vocazione politica, ma che agirebbe come un potente polo di attrazione sugli altri Stati-membri, alla cui adesione il nucleo iniziale dei Sei rimarrebbe aperto, sempre che coloro che intendessero entrare a farne parte ne accettassero la costituzione. L’allargamento cesserebbe così di essere una minaccia costante per una coesione europea che si sta indebolendo sempre più, anche indipendentemente dall’allargamento, e diventerebbe il primo stadio di un processo destinato a concludersi con l’unificazione federale dell’intera Europa.
Ma un’unione politica nel quadro dei Sei sarebbe anche il solo modo per salvare le stesse istituzioni europee, il cui processo di involuzione oggi sembra inarrestabile. Oggi le istituzioni dell’Unione, quando sono confrontate al problema della propria riforma, producono soltanto sterili compromessi e vuote declamazioni. Ma, se una vera unione politica nascesse in un quadro più ristretto, esse costituirebbero la cinghia di trasmissione attraverso la quale questa comunicherebbe la sua forza di propulsione politica agli altri membri dell’Unione. Esse acquisterebbero nuova forza e nuova credibilità.
È importante che quegli uomini politici che oggi stanno incominciando a prendere coscienza della natura della scelta storica di fronte alla quale l’Europa si trova incomincino ad esprimersi con chiarezza e senza riserve, lanciando in comune un progetto concreto. Essi incontreranno incomprensione e forti opposizioni. Ma tutte le scelte decisive sono difficili. E la strada è obbligata. Hic Rhodus, hic salta. La stagione dei compromessi è finita.
Publius