Il tempo confermerà se il risultato del vertice svoltosi a Bruxelles l’8-9 dicembre scorsi ha sancito effettivamente una svolta nella storia dell’Unione. Ma sin da ora possiamo dire che l’autoesclusione della Gran Bretagna dall’accordo con cui la Germania e la Francia hanno voluto segnare l’avvio del rafforzamento dell’Unione monetaria indica che si è consumata una rottura di enorme peso politico, e che si può aprire una nuova fase del processo europeo.
Quanto è successo non deve essere minimizzato: la Gran Bretagna ha sempre perseguito l’obiettivo di frenare l’approfondimento politico del quadro comunitario; pur non essendo riuscita ad impedire la nascita dell’euro ha saputo mantenere un potere di ingerenza e di veto nella gestione dell’Unione monetaria e, in concomitanza con l’allargamento, ha esercitato in questi ultimi dieci anni un forte ruolo di leadership nell’allontanare l’Unione dall’originario disegno politico a favore di una visione incentrata esclusivamente attorno alla costruzione del mercato unico.
La sconfitta del disegno britannico è stata sancita innanzitutto dall’evoluzione dei rapporti di potere economici e politici a livello mondiale. La pretesa che l’Europa potesse prosperare continuando a rimanere in un perenne stato di minorità politica è stata smentita dai fatti. Il modello della semplice condivisione di competenze (anche basilari, come la moneta) affidate ad organismi di fatto tecnici, perché privi di potere politico e quindi emanazione degli Stati membri – che restavano i veri detentori della sovranità – ha dimostrato di non funzionare. In questo quadro, che manteneva nella sostanza l’esercizio del governo a livello nazionale, le istituzioni comunitarie erano di fatto svuotate delle loro prerogative potenzialmente sovranazionali e ridotte – sia la Commissione sia il Parlamento europeo, pur in modi diversi – ad organi derivati privi di valenza politica e di capacità propulsiva.
La crisi ha sancito l’impossibilità di continuare a mantenere questo modello di integrazione confederale in presenza di un’unione monetaria che ha reso indissolubilmente interdipendenti i suoi membri, e ha costretto i paesi dell’euro, sotto la guida del motore franco-tedesco – ed in particolare della Germania che, essendo la prima economia dell’eurozona, deve assumersi le responsabilità e gli oneri maggiori –, ad avviarsi verso forme più strette di unione, nella prospettiva di cedere ampie fette di sovranità. La Gran Bretagna ne ha in qualche modo preso atto e ha sancito un divorzio che non riguarderà il mercato unico, ma che potrà avere effetti dirompenti sull’evoluzione politica del quadro europeo.
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Ora che la rottura con Londra si è consumata e che si è creato un nuovo quadro attorno al progetto dell’Unione monetaria, fiscale e di bilancio, rimane però ancora molto lavoro politico da fare per costruire effettivamente la nuova Unione. Il problema non riguarda tanto i limiti che ancora sussistono negli strumenti concordati per affrontare l’emergenza dei debiti sovrani. Questa (per quanto importante) è una preoccupazione che investe in generale i mercati finanziari, ma per gli europei in particolare essa è indicativa soprattutto della necessità di costruire, a breve-medio termine al massimo (ossia in un orizzonte temporale di non più di un paio di anni), andando oltre il nuovo Patto di stabilità, una vera unione fiscale e una piena unione politica.
L’accordo sancito prevede nuove regole e indica gli strumenti per imporle agli Stati: questi ultimi, dopo averle sottoscritte, perdono in qualche modo il potere di decidere le rispettive politiche economiche e di bilancio, accettando sia l’imposizione di sanzioni pressoché automatiche sia di farsi commissariare in caso di inadempienza. Una cessione sostanziale di sovranità che questa volta probabilmente sarà reale a tutti gli effetti (al contrario di quando, in passato, gli sforamenti delle regole di Maastricht su deficit e debito erano stati “condonati” da deroghe ad hoc concordate di volta in volta dagli stessi governi nazionali), pena l’attacco dei mercati a tutto il gruppo di paesi che hanno deciso di sottoporsi a questi controlli. Questo stato delle cose rafforzerà i sistemi di vigilanza reciproca tra i vari paesi ma, in assenza di un salto verso l’unità politica, non risolverà né il problema della solidarietà, né quello dello sviluppo e neppure quello della legittimità democratica del nuovo sistema europeo.
La prima questione, quella della solidarietà, è evidente: se non si arriva ad un quadro statuale comune, si è costretti a continuare ad esercitare la solidarietà sulla base della cooperazione volontaria tra paesi con diversi gradi di sviluppo e con differenti risorse di bilancio e capacità produttive, per quanto interdipendenti e integrati. Il risultato è la sensazione, per le economie più forti, di una “transfer union” gravemente sbilanciata, che mette a rischio la loro stessa solidità: per quanti argomenti si possano trovare riguardo all’interesse reciproco, all’interno di una stessa area monetaria, al sostegno delle situazioni più deboli, la reazione di ampie fette di opinione pubblica sarà inevitabilmente sempre negativa. In questo modo, poiché le disomogeneità di partenza sono un dato di fatto oggettivo, per quanti sforzi possano fare i paesi più fragili per colmare almeno in parte il divario di competitività che li separa dai più forti, la situazione in assenza di un profondo avanzamento politico è destinata a logorarsi sia sul terreno del consenso sia su quello della legittimità.
Sullo sviluppo, è dai tempi del Libro bianco della Commissione Delors che gli europei sanno che solo con un piano unico possono tornare ad essere competitivi a livello globale, e soprattutto possono avviare un nuovo ciclo basato su un modello sostenibile e capace di sfruttare le potenzialità dell’attuale economia della conoscenza. Ma la mancata esecuzione, ad oggi, dei piani a più riprese adottati dimostra che senza risorse e capacità di governo a livello europeo i progetti o rimangono in gran parte lettera morta oppure vengono piegati alle esigenze nazionali dei diversi paesi, anche perché gli investimenti di ciascun paese in un mercato unico vanno in larga parte a beneficio dei partner.
Un salto di qualità sotto questo profilo, con un aumento del bilancio europeo tramite il reperimento di risorse proprie a livello dell’Eurozona allargata ed il varo di politiche europee per le infrastrutture e il potenziamento della ricerca, sarebbe possibile sin da ora con gli strumenti giuridici in vigore; ma il problema è politico, perché implica la volontà di dotarsi di effettivi strumenti di governo sovranazionali, non più solo frutto della mera condivisione di regole e discipline, ma indirizzati ad un progetto comune e solidale di sviluppo di tutto il continente. Senza un cambio di mentalità che porti l’Europa ad essere, invece dell’attuale somma di interessi nazionali, una effettiva comunità politica, il tentativo di realizzare la crescita attraverso le politiche dei singoli paesi membri è destinato a produrre risultati molto al di sotto sia delle potenzialità di ciascuno Stato sia del livello sufficiente ad uscire dalla crisi.
L’ultimo punto, quello della legittimità democratica, è anch’esso evidente: da un lato vi è il problema tecnico-giuridico di sanare il fatto che un accordo – quello di Bruxelles –, che si pone deliberatamente al di fuori dei Trattati, ha attribuito a un’istituzione dell’Unione – la Commissione – il compito di organo tecnico di sorveglianza dell’Eurozona riguardo alle regole pattuite (problema che formalmente potrà essere risolto con qualche escamotage giuridico, ma che ha anche implicazioni di sostanza nella misura in cui la Gran Bretagna fa parte della Commissione); ma, soprattutto, dall’altro lato resta la necessità politica di giustificare agli occhi dell’opinione pubblica lo svuotamento delle prerogative dei rispettivi parlamenti nazionali nel controllo dei bilanci e nella definizione delle politiche economiche. Nella misura in cui i meccanismi di controllo democratico dovessero restare ancora a lungo a livello nazionale, come si pensa di trovare il consenso per interventi spesso difficili e impopolari che potranno essere usati in modo spregiudicato dalle forze populiste? Cosa convincerà i cittadini di uno Stato a fare sacrifici per sostenere gli altri paesi più deboli? Se è vero, come ormai tutti ammettono, che siamo solo agli inizi di una lunga fase di austerità, è illusorio pensare di poter promuovere la coesione sociale e politica necessaria per attuare i profondi piani di ristrutturazione finanziaria, economica e produttiva, indispensabili per rilanciare lo sviluppo, senza cambiare prospettiva e quadro politici dell’esercizio della democrazia.
Il nodo della legittimità democratica, insieme a quello del rilancio su nuove basi dello sviluppo, è quindi quello decisivo da sciogliere per far compiere al processo europeo il salto di qualità di cui necessita per superare tutte le sue attuali contraddizioni e fragilità. In che direzione bisogna muoversi? Un esecutivo europeo, dotato di poteri limitati ma effettivi e del controllo di risorse autonome europee, legittimato dal voto dei cittadini e responsabile di fronte ad un parlamento democratico europeo nella pienezza dei suoi poteri legislativi, potrà nascere solo dalla trasformazione del Consiglio in una Camera alta degli Stati e da una riforma del Parlamento europeo in una Camera bassa eletta sulla base di una legge elettorale uniforme e rappresentativa dei cittadini della nuova Unione – in cui quindi viga la regola democratica “one man one vote” e sia sanato il vulnus attuale denunciato dalla Corte costituzionale tedesca. Potrà, in altre parole, solo essere il frutto di un processo costituente democratico attraverso il quale gli Stati che hanno accettato, o avranno accettato, l’abbandono della sovranità monetaria e saranno disposti a trasferire quella in campo fiscale, costruiranno una nuova sovranità europea, con il coinvolgimento ed il supporto di un’amplissima parte dell’opinione pubblica. Questo implica superare il metodo comunitario che ha preteso negli ultimi vent’anni di costruire un’Unione anche con chi non la voleva, finendo col giustificare la coesistenza dell’intergovernamentalismo con il parlamentarismo e la riduzione del ruolo della Commissione a mero organismo tecnico di vigilanza.
In questa prospettiva, posto che il traguardo federale deve costituire il punto di arrivo del processo affinché l’unità possa essere davvero irreversibile e solida, come può evolvere e rafforzarsi il governo provvisorio della nuova Europa che i governi hanno tenuto a battesimo nei giorni scorsi a Bruxelles? Come dare maggiore capacità di governo ai nuovi meccanismi, per poterne allargare le prerogative anche in direzione delle politiche per lo sviluppo, per accrescere il consenso di cui possono godere e rafforzare almeno in parte la solidarietà reciproca? È ipotizzabile, come propone ad esempio Joschka Fischer, che in una fase transitoria la funzione di esecutivo provvisorio svolta dal Consiglio dell’Eurozona allargata sia bilanciata dal controllo esercitato da una Camera composta dai rappresentanti delle commissioni bilancio dei rispettivi parlamenti nazionali unitamente a quelli del Parlamento europeo selezionati tra gli eletti dei paesi che compongono il nuovo quadro?
La questione è sicuramente complessa, ma va affrontata senza indugi. E per farlo devono essere chiari sia l’obiettivo finale sia la necessità di superare le false soluzioni comunitarie, ormai impraticabili. Un dato è certo: dopo il vertice di Bruxelles governi, istituzioni e partiti non potranno più nascondersi dietro l’alibi dei veti della Gran Bretagna per giustificare ulteriori difficoltà nel procedere sulla strada della federazione europea.
Il tempo stringe: se si vogliono salvare l’euro e il progetto europeo e rovesciare le attuali difficoltà trasformandole in una chance per un nuovo futuro di progresso chiunque creda in questi obiettivi deve impegnarsi a dar corpo alla nuova realtà.
Publius