In seguito alla vittoria delle forze pro-europee alle elezioni del Parlamento europeo e la conferma di Von der Leyen alla presidenza della Commissione europea, iniziano a delinearsi alcune questioni di fondo da cui dipenderà il prossimo futuro dell’Unione. Da una parte si aggravano le sfide interne ed esterne alla stabilità e al benessere dei cittadini, fra tutte l’esito incerto del conflitto in Ucraina e la debole crescita economica. Si fa strada così nel dibattito politico e nell’opinione pubblica, l’esigenza che l’Europa si assuma nuove responsabilità nell’ambito della difesa e degli investimenti strategici. A spingere per una svolta in tal senso potrebbe essere la stessa Commissione europea: la Presidente Von der Leyen ha già dichiarato davanti al Parlamento la sua intenzione di iniziare la difficile costruzione di un’industria europea della difesa e di promuovere politiche di crescita e sviluppo senza rinunciare al completamento del Green Deal e al rafforzamento della coesione sociale. Eppure, l’evidente necessità di un rafforzamento dell’Unione si scontra con lo smarrimento dei singoli governi nazionali preoccupati di mantenere il consenso dell’elettorato e incapaci di proiettare la soluzione dei loro problemi nazionali in un’azione comune a livello europeo.Emblematica di questa crisi è la debolezza della Francia e della Germania, la cui collaborazione è stata a lungo il motore del processo di integrazione: a Parigi, il nuovo governo di minoranza sostenuto dai macronisti e dai repubblicani fatica a trovare un’agenda credibile e resta alla mercé dei voti di censura da parte della sinistra (anch’essa frammentata) o dell’estrema destra; a Berlino, la coalizione semaforo sembra arrivata al capolinea con un Cancelliere fortemente impopolare e i Liberali che, sull’orlo dell’estinzione, continuano ad agitare lo spettro della crisi di governo. Se possibile, le prospettive per il futuro sembrano ancora più fosche: mentre in Francia il sistema parlamentare sembra paralizzato da una divisione in tre poli quasi equivalenti (la sinistra, il centro e l’estrema destra), in Germania, la probabile vittoria della CDU-CSU alle prossime elezioni dovrà fare i conti con la necessità di creare alleanze parlamentari, cosa resa assai difficile dalla decisione di Friedrich Merz, successore di Angela Merkel, di imprimere una forte sferzata del partito a destra, allontanandolo dalle posizioni dei Socialisti e dai Verdi. Certo, una vittoria dell’estrema destra non è da escludersi: sia l’arrivo di Marine Le Pen alla Presidenza della Repubblica francese, sia l’ingresso nel governo tedesco di Alternative für Deutschland metterebbe una pietra tombale su qualunque prospettiva di rilancio dell’Unione e innescherebbe gravissimi processi disgregativi di oltre 70 anni di integrazione europea. Il rischio di una simile prospettiva non va sottovalutato.
In questa situazione di grave incertezza, il rapporto Draghi sulla competitività – pubblicato lo scorso 9 settembre – è arrivato come una doccia fredda per i governi e le istituzioni europee. Il messaggio è chiaro: l’Europa non è in crisi, ma in declino. Le debolezze sono molteplici: incapacità di innovare nei settori tecnologici d’avanguardia, scarsa efficienza nell’approvvigionamento delle risorse necessarie per la crescita, frammentazione del mercato dei capitali e del sistema bancario. Le cause di questi problemi vanno ricercate in due deficit strutturali dell’attuale Unione: l’assenza di un’autorità politica in grado di portare avanti l’interesse comune europeo al di là dei singoli veti nazionali e l’incapacità di mobilitare risorse sufficienti per l’innovazione e lo sviluppo economico. Così, divisa al suo interno e incapace di decidere in modo efficiente, l’Unione sta perdendo la sua competitività in confronto con le altre grandi potenze globali, Stati Uniti e Cina in primis. Tutto ciò si traduce in una lenta, ma costante perdita di benessere, sicurezza e coesione sociale, con gravi ripercussioni sulla tenuta del tessuto democratico negli Stati membri.
Fin qui la diagnosi. Draghi però offre anche la soluzione: il declino dell’Europa non è irreversibile. Il potenziale dell’Unione è ancora immenso e la strada perduta potrebbe essere facilmente recuperata se venissero attuate alcune riforme necessarie in grado di far fare un salto di qualità al processo di integrazione. La parola d’ordine è “sussidiarietà”. L’Europa deve agire unita tutte le volte che serve, il che richiede una coesione più stretta su tanti piani politici interdipendenti: spesa pubblica, politiche ambientali, investimenti in ricerca e sviluppo, sostegno all’industria, approvvigionamento energetico e politica estera sono cose da fare insieme in una prospettiva europea. Perché ciò sia possibile bisogna introdurre nell’Unione le necessarie trasformazioni istituzionali, essenzialmente superando il sistema di voto all’unanimità nel Consiglio e rafforzando il ruolo del Parlamento europeo e della Corte di giustizia in quegli ambiti dove sono ancora esclusi o svolgono un ruolo minore. Ciò richiede una riforma generale dei Trattati. In alternativa, Draghi propone riforme dei Trattati in forma semplificata (attraverso le clausole passerella) o, in mancanza dell’unanimità necessaria, tentare la via delle cooperazioni rafforzate o degli accordi intergovernativi tra gruppi di governi. Il messaggio è chiaro: la riforma dell’Unione è così urgente da richiedere il superamento del quadro costituzionale esistente anche a costo di procedere con un gruppo di Paesi volenterosi. L’Europa dovrebbe cioè essere riorganizzata su più livelli di integrazione con un nucleo politicamente coeso in grado di reggere la competizione globale. Il rapporto Draghi è stato accolto con molta attenzione dalle istituzioni UE e dai governi nazionali, i quali, per la maggior parte e a parole, hanno concordato con la diagnosi e sul da farsi.
La domanda ora è: chi potrà ora farsi carico del piano Draghi per la riforma dell’Unione? Davanti alla debolezza del motore franco-tedesco, un ruolo decisivo può essere svolto dalla Commissione e dal Parlamento europeo. In particolare, Von der Leyen, che ha già approfittato delle debolezze dei governi per dare forma ad un collegio di Commissari a lei più fedele, dovrebbe intestarsi il Piano di Draghi e agganciare le sue priorità politiche con la proposta di riforma dei Trattati avanzata dal Parlamento europeo lo scorso novembre. Tale progetto, che prevede molte delle riforme istituzionali richieste da Draghi, a partire dal superamento del voto all’unanimità, resta ormai bloccato da mesi sul tavolo dei governi. Il rinnovato sostegno del Parlamento e della nuova Commissione al progetto di revisione dei Trattati sarebbe decisivo per spingere il Consiglio europeo a convocare – a maggioranza semplice – una Convenzione ed aprire così il cantiere delle riforme tanto atteso per mettere l’Unione nelle condizioni di difendere i suoi interessi e i suoi valori nell’attuale contesto internazionale sempre più competitivo e brutale.