L’entrata in vigore della moneta unica europea deve essere celebrata come un evento eccezionale nella storia del continente. Come molti hanno giustamente notato, è la prima volta nella storia dell’umanità che un ampio gruppo di grandi Stati indipendenti si sottopone al rigido vincolo costituito dall’adozione di una moneta unica. In questo modo gli undici paesi dell’area dell’euro hanno compiuto un passo importantissimo. La moneta unica, sottraendo agli Stati membri dell’UEM la leva della politica monetaria, limita in modo drastico i loro strumenti di intervento sull’economia. L’Unione monetaria di fatto mette in gioco la sovranità dei suoi membri. E di conseguenza questi, a più o meno lunga scadenza, si troveranno di fronte alla scelta tra la rinuncia alla propria sovranità e la rinuncia all’Unione monetaria.
È naturale che questo dilemma venga rifiutato dalla stragrande maggioranza dei politici e degli osservatori. In queste settimane si possono leggere sui giornali le più curiose elucubrazioni sulla possibilità di far convivere una moneta unica con una pluralità di Stati sovrani: una possibilità che si vorrebbe fondata su di una pretesa dissoluzione della realtà stessa della sovranità, ma la cui affermazione è in realtà motivata dalla volontà di mantenere la sovranità nell’ambito nazionale. I più avveduti tra i politici e i giornalisti si rendono certo conto della natura delle contraddizioni che la moneta unica non mancherà di far esplodere, e sono consapevoli della necessità di dare l’avvio ad una riforma istituzionale dell’Unione. Ma quasi nessuno ha il coraggio e la lucidità di andare al di là della proposta di qualche espediente istituzionale di rilievo puramente giuridico.
Ciò che accomuna oggi tutti gli “europeisti” è l’incapacità di prendere atto del fatto che, per uscire dalle contraddizioni nelle quali si trova imbrigliata, l’Unione europea deve fare un salto rivoluzionario, attraverso il quale gli attuali Stati membri cessino di esistere come entità sovrane, dando luogo alla nascita di un nuovo Stato europeo, che venga esso stesso investito della prerogativa della sovranità. Si tratterà evidentemente di uno Stato federale, dotato come tale di poteri circoscritti e nel quale i livelli nazionale, regionale e locale eserciteranno numerose e vitali competenze, definite da una Costituzione e garantite da una Corte di Giustizia; ma pur sempre di uno Stato, fondato su di un popolo, il cui governo centrale sia dotato, tra le altre, delle competenze della politica estera e della difesa e la cui presenza abbia un grado di visibilità sufficiente a farne il termine di riferimento di un forte consenso da parte dei suoi cittadini.
Questa prospettiva viene derisa dagli europeisti “realisti”, che respingono l’idea di un “superstato” europeo senza nemmeno sapere di che cosa stanno parlando, e tentano di contrabbandare l’idea che uno Stato europeo, in quanto Stato, sarebbe burocratico e accentrato. Questa idea è grossolanamente falsa, perché è del tutto impensabile che si possa unire in uno Stato burocratico e accentrato una pluralità di Stati nazionali diversi per lingua e per cultura, con alle spalle una storia secolare di indipendenza e di conflitti. Di fatto questo è un modo per evitare di affrontare il problema alla radice. La conseguenza di questo atteggiamento è che, mentre i nemici dell’Europa usano un linguaggio aperto e aggressivo, i suoi timidi amici sono letteralmente dominati dalla paura di fare scandalo, o di urtare interessi e sensibilità, e si preoccupano soltanto di formulare proposte che siano abbastanza innocue da non spaventare nessuno.
La verità è che il salto rivoluzionario dal quale dipende la sopravvivenza dell’Unione monetaria e il futuro dell’Europa non si può fare quasi di nascosto, senza che nessuno se ne accorga. Fare l’Europa politica significa superare il metodo intergovernativo, fondato sulla segretezza e sui compromessi. E, anche se i governi manterranno un ruolo cruciale nel processo fino alla sua conclusione (sempre che una conclusione positiva ci sia) è impensabile che il metodo intergovernativo possa essere superato attraverso il metodo intergovernativo. L’obiettivo potrà essere raggiunto soltanto se al metodo intergovernativo della riforma dei trattati si sostituirà il metodo costituente, grazie al quale sia il popolo stesso, attraverso i suoi rappresentanti eletti, a decidere le forme della propria convivenza e ad affermare i valori che la devono fondare.
Va da sé che questo presuppone un forte movimento di opinione pubblica, che potrà nascere soltanto se, di fronte alle gravi crisi che non mancheranno di manifestarsi in un futuro più o meno lontano, qualcuno saprà usare il linguaggio forte della verità, correndo anche i rischi che ogni posizione coraggiosa comporta. Se questo non accadrà, le speranze di coloro che confidano nel beneficio del tempo e nella capacità di un’Unione monetaria senza Stato di navigare indenne nelle tempeste politiche e finanziarie che si succedono nel mondo di oggi, si riveleranno presto delle illusioni.
Publius