La guerra nel Kosovo, con gli orrori della pulizia etnica che l’accompagnano e le insensate distruzioni che essa sta provocando ci deve indurre ad alcune riflessioni.
1) I governi dell’Unione europea hanno gravissime responsabilità per gli avvenimenti che hanno portato alla disgregazione della Jugoslavia e che sono culminati nella follia del conflitto in corso. La Jugoslavia prima del 1991 era un paese percorso da tensioni, ma nel quale esistevano ancora un diffuso e radicato consenso nei confronti della federazione e una spinta verso la democrazia assai più forte di quella che si manifestava nei paesi dell’Europa centro-orientale direttamente sottoposti all’egemonia sovietica. Se l’Unione europea avesse attivamente scoraggiato le spinte secessionistiche e incoraggiato quelle alla democratizzazione, usando come arma la prospettiva dell’adesione della Jugoslavia all’Unione, essa avrebbe evitato la crisi Jugoslava e le rovine e i lutti che ne sono conseguiti. Al contrario i governi dell’Europa occidentale hanno condotto nei Balcani, ciascuno per proprio conto, una “politica di potenza” incredibilmente miope, nascondendo le proprie ambizioni provinciali dietro il paravento del nefasto principio dell’autodeterminazione dei popoli. In questo modo essi hanno promosso la disgregazione di un paese che aveva di fronte a sé un futuro di libertà e di prosperità e dato il loro avallo alla barbarie della pulizia etnica.
2) La guerra, quali che siano i tempi e le modalità del suo ulteriore svolgimento e della sua conclusione, lascerà la Jugoslavia in una situazione peggiore di quella in cui essa si trovava prima che la guerra cominciasse. Un “protettorato” sul Kosovo di stampo coloniale non potrebbe che essere fragile e di breve durata. L’idea che l’attuale Jugoslavia possa improvvisamente diventare democratica e filo-occidentale dopo la fine delle ostilità è del tutto arbitraria, perché la guerra sta rafforzando il nazionalismo serbo e il risentimento antioccidentale della popolazione, quale che sia il destino personale di Milosevic. L’indipendenza del Kosovo, con o senza la sua annessione all’Albania, costituirebbe un’ennesima dissennata affermazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione e darebbe l’avvio ad una fase di pulizia etnica di segno inverso all’attuale. Qualunque tentativo di giustificare la guerra con motivazioni ideali è quindi del tutto pretestuoso.
3) È comunque fuori luogo prendere l’attuale guerra a pretesto per sterili esercizi di antiamericanismo. Gli americani sarebbero stati beni lieti di non essere coinvolti nella crisi jugoslava. Essi sono stati chiamati in Bosnia nel 1995 dagli europei, spaventati dalla propria impotenza e dalla propria incapacità di venire a capo di un conflitto che essi stessi avevano alimentato. Ciò di cui si dovrebbe prendere atto è invece che i governi europei non hanno la minima voce in capitolo quando si tratta di decidere della pace e della guerra in Europa, cioè della vita dei loro cittadini. Resta vero peraltro che il solo disegno politico che guida oggi la condotta della guerra da parte degli Stati Uniti è quello di dimostrare con l’argomento delle bombe l’indiscutibilità della loro egemonia mondiale. Ma la guerra nel Kosovo ha fornito la dimostrazione opposta. Un’egemonia che si deve affermare con le bombe è un’egemonia in crisi, perché non è accettata da chi la subisce. La condotta irrazionale degli Stati Uniti nello scatenare e nel portare avanti la guerra costituisce soltanto la dimostrazione del fatto che le responsabilità mondiali alle quali essi devono far fronte sono ormai troppo grandi per il loro potere reale.
4) La chiave per la soluzione della tragica vicenda jugoslava rimane comunque nelle mani dell’Europa, purché i governanti dei paesi dell’Unione, ammaestrati dalla tragedia della guerra, si rendano conto che soltanto con l’unità politica essi possono consentire alla Jugoslavia di uscire dal vicolo cieco nel quale si trova, garantire la pace sul continente e alleggerire gli Stati Uniti di una parte considerevole delle responsabilità mondiali dal cui peso essi rischiano di rimanere schiacciati. I governi europei dovrebbero trovare il coraggio e la lucidità di prendere in tempi brevi decisioni radicali, nella consapevolezza che l’opinione pubblica Jugoslava, posta di fronte ad un disegno evolutivo anziché alla sola realtà delle bombe, non mancherebbe di esprimere un chiaro orientamento favorevole alla democrazia e all’unione tra i popoli. Essi dovrebbero – dopo aver ottenuto dagli Stati Uniti la cessazione dei bombardamenti, e comunque dopo essersi dissociati dalle operazioni belliche – concordare e lanciare un piano che si articoli nei seguenti punti:
a) proclamare e sottoporre alla ratifica dei competenti organi nazionali la trasformazione dell’Unione Europea in un’Unione federale, affidando contemporaneamente al Parlamento europeo il mandato di redigerne la costituzione o, in alternativa, convocando i comizi per l’elezione di un’Assemblea costituente;
b) offrire contestualmente a tutte le repubbliche dell’ex-Jugoslavia di diventare, dopo un periodo transitorio dalla durata definita e sotto la assoluta condizione che si dotino di istituzioni democratiche, un unico Stato membro della Federazione europea (beninteso di struttura federale esso stesso). L’offerta dovrebbe essere accompagnata da un appello ai cittadini di tutte le repubbliche della ex-Jugoslavia perché si mobilitino in favore dell’Europa e della democrazia;
c) lanciare un massiccio programma europeo di ricostruzione dell’intera regione devastata dalla guerra in corso nel quadro di un più ampio piano di aiuto per lo sviluppo dell’intera area balcanica.
Va da sé che, qualora alcuni governi europei non accettassero questo piano, gli altri dovrebbero procedere da soli.
Si tratta di una proposta radicale, che molti considereranno irrealizzabile. Ma se essa non sarà realizzata, ciò dipenderà soltanto dalla mancanza della necessaria volontà politica da parte dei governi dell’Unione. Di fatto essa costituisce la sola via d’uscita alla crisi. Nei momenti cruciali della storia tutte le scelte sono difficili. Tutto dipende dalla circostanza che vi siano, in quei momenti, uomini politici all’altezza dell’importanza delle scelte da fare.
Publius