N. 23 Maggio 2002 | Il Vertice di Barcellona conferma la deriva involutiva dell’Unione Europea

Con la decisione presa a Laeken di dar vita a una Convenzione i governi cercano soltanto di prendere tempo. Il metodo comunitario con i suoi obiettivi intermedi ha ormai fatto il suo tempo. Il processo di integrazione può essere rilanciato soltanto dai Paesi fondatori, dove esiste un patrimonio di consapevolezza europea più ricco che altrove.

Il cammino dell’unificazione dell’Europa è finora avanzato secondo una dinamica caratterizzata da una fondamentale ambiguità. I suoi protagonisti, cioè essenzialmente i governi, sono stati motivati, ad ogni svolta del processo, da due logiche contraddittorie. Da un lato essi si rendevano conto che un certo grado di unità nel quadro della Comunità prima e dell’Unione poi costituiva la condizione primaria del benessere dei loro cittadini e quindi del consenso grazie al quale essi potevano continuare a governare. Dall’altro questa consapevolezza trovava un limite invalicabile nella volontà degli Stati nazionali di non rinunciare alla loro sovranità. Di qui derivava il carattere eminentemente equivoco del processo. La logica del mantenimento della sovranità spingeva i governi a perseguire e a difendere i loro interessi nazionali, anche in contrasto con quelli degli altri Stati membri. Ma questa dialettica doveva mantenersi all’interno di un quadro di compatibilità europeo, che rendeva in ogni caso possibile concludere ragionevoli compromessi ed evitare che il confronto degenerasse in conflitto. In questo modo sono state create istituzioni e norme (il cosiddetto acquis communautaire) che, grazie al forte grado di inerzia di cui sono dotate, non potranno essere facilmente soppresse. Grazie ad esse l’Europa occidentale ha conosciuto un periodo di stabilità e di prosperità senza precedenti.

Tutto ciò ha potuto accadere grazie al quadro politico creato dalla Guerra fredda e da un’egemonia americana che si esercitava nel contesto di una sostanziale convergenza di interessi tra Europa e Stati Uniti. Questo quadro e questa convergenza, che già erano andati indebolendosi con il trascorrere dei decenni, sono venuti del tutto a mancare con il radicale mutamento dell’equilibrio mondiale che si è verificato alla fine degli anni ‘80. L’Europa si è così trovata ad affrontare nuove e pesanti responsabilità alle quali non era preparata perché la tutela esercitata nei suoi confronti dagli Stati Uniti non è stata sostituita da un potere politico europeo che non c’è.

E’ importante sottolineare che a questa nuova situazione l’Europa non può far fronte avanzando verso obiettivi intermedi, come lo erano stati l’elezione diretta del Parlamento Europeo, il Mercato unico e la moneta europea, che possano essere raggiunti senza il trasferimento della sovranità ad uno Stato federale europeo. Non sono obiettivi intermedi la difesa e un autonomo potere di imposizione fiscale, che non possono essere disgiunti dalla statualità. Né sono ipotizzabili riforme istituzionali parziali che consentano al processo di progredire. Il metodo comunitario, che peraltro i federalisti hanno da sempre criticato, ha fatto definitivamente il suo tempo.

La prospettiva imminente dell’allargamento ai paesi dell’Est aggrava ulteriormente la situazione di impasse nella quale l’Europa si trova, accentuando la sua incapacità decisionale, già evidente nel quadro dei Quindici. Tutti gli uomini politici europei più avveduti avevano indicato con chiarezza la necessità di una radicale riforma delle istituzioni dell’Unione prima dell’allargamento. Ma la priorità data al mantenimento della sovranità nazionale ha impedito che questa consapevolezza si trasformasse in un progetto. I fallimenti di Amsterdam e di Nizza ne sono la prova.

Il fatto è che il processo è entrato in una nuova fase, non più evolutiva, ma involutiva. Lo dimostrano l’umiliante impotenza dell’Europa nell’attuale equilibrio mondiale, l’ormai completa paralisi decisionale delle sue istituzioni e l’approfondimento del suo deficit di democrazia, che si manifesta non soltanto al livello delle istituzioni dell’Unione, ma anche a livello nazionale, dove si rafforzano, in misura e con modalità diverse a seconda dei paesi, tendenze populiste, nazionaliste e xenofobe. La stessa sopravvivenza dell’euro, che pure ha rappresentato un grande avanzamento sulla strada dell’unità, non è per nulla al riparo dai rischi che derivano dalla mancanza di un potere politico che lo sostenga e il suo impiego come moneta internazionale soffre della sfiducia generata da questa mancanza. Senza una radicale inversione di tendenza, le spinte alla disgregazione sono destinate a prevalere sull’inerzia dell’acquis communautaire e a far saltare il quadro di compatibilità che ha costituito fino ad ora la condizione di possibilità dell’avanzamento del processo, aprendo la strada alla dissoluzione dell’Unione.

L’idea, una volta così diffusa, che l’integrazione sia irreversibile, e che il suo approfondimento ci stia portando spontaneamente verso l’unità federale, sta così mostrando tutta la sua inconsistenza. Alcuni governi europei se ne sono resi conto. Ma essi non sanno reagire se non prendendo tempo. E’ ciò che essi hanno fatto a Laeken, dando vita a una “Convenzione” incaricata di studiare le riforme necessarie per ridare slancio alla struttura istituzionale dell’Unione. Ma è una pura illusione pensare che ciò che i governi non hanno saputo né voluto fare a Nizza e ad Amstedam possa essere fatto da un’entità formata da rappresentanti degli stessi governi, da membri della Commissione e da Parlamentari europei e nazionali eletti in secondo grado, e che è l’espressione di un quadro – quello dei Quindici più i paesi candidati nel ruolo di osservatori – strutturalmente incapace di decidere e nella quale, data la sua composizione, non possono non prevalere le tendenze contrarie ad ogni cessione di sovranità.

In realtà il processo deve essere rilanciato nel punto dove esiste un patrimonio di consapevolezza europea più ricco che altrove e un più acuto senso di responsabilità. Solo in quel punto, non appena l’evoluzione delle circostanze ne creerà l’occasione, potrà prendere forma un progetto che si estenderà per cerchi successivi fino ad abbracciare l’intero territorio dell’Unione. Questo punto non può essere che il cuore dell’Europa, cioè l’asse franco-tedesco. Da qui deve partire l’iniziativa di un progetto federale che dovrà successivamente essere elaborato e deciso dal numero minimo di paesi sufficiente a costituire la massa critica senza la quale esso non potrebbe avere la credibilità e la capacità di attrazione indispensabili per estendersi progressivamente all’Unione nel suo complesso. Si tratta di un gruppo di paesi che dovrà essere omogeneo e unito da una lunga storia di integrazione. Esso non potrà quindi essere costituito inizialmente che dai Sei paesi fondatori (o da cinque di essi se la deriva antieuropea del governo italiano si dovesse confermare). Essi lo dovranno proporre, in termini sostanzialmente non negoziabili, a tutti gli altri membri dell’Unione, procedendo in modo non dissimile da quello seguito per la creazione della moneta europea. E’ facile prevedere che l’allargamento di questo primo nucleo si verificherà in tempi brevi, come è avvenuto per l’adozione dell’euro. Ma la condizione indispensabile dell’inizio del processo sarà che esso si formi, e si formi sulla base di un progetto radicale e della forte volontà di realizzarlo.

Publius

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