Il mondo industrializzato sta conoscendo la più grave crisi economica della sua storia dopo quella del 1929. Si tratta di una crisi che, come spesso accade, è stata innescata dalla fine di una bolla speculativa, ma che ha incominciato a investire l’economia reale e che si sta manifestando in Europa in modo più minaccioso che negli Stati Uniti. Essa ha già lasciato il segno in vari paesi dell’Unione, con vicende come la chiusura di Sabena e le difficoltà in cui si trova Vivendi Universal. Ma l’episodio più grave è stato la crisi di FIAT Auto, che comporterà, secondo il piano di ristrutturazione presentato dall’azienda, la chiusura di due stabilimenti con la perdita di circa ottomila posti di lavoro. La FIAT è il polo trainante del sistema industriale italiano. Essa ha un enorme indotto e una imponente esposizione nei confronti delle maggiori banche italiane. E’ quindi essenziale circoscrivere le dimensioni e gli effetti della sua crisi ed evitare che si verifichi un effetto domino che, data la stretta interdipendenza tra le economie dei paesi dell’Unione, non si fermerebbe certamente ai confini dell’Italia.
La causa ultima della crisi della FIAT deve essere ricercata nell’incapacità dell’industria automobilistica europea di aggregarsi in grandi poli industriali. Si tratta di una politica che comporterebbe la rinuncia da parte degli Stati nazionali al controllo di un settore strategico del proprio sistema industriale, come accade per le compagnie aeree di bandiera. Essi non hanno accettato di farla, il che ha avuto come conseguenza, da una parte, l’espulsione dal mercato della case meno attrezzate per affrontare la competizione internazionale e, dall’altra, l’estensione della presenza americana nel settore.
Il problema oggi è quello di garantire non una impossibile soluzione della crisi, ma una sua gestione che consenta sia di limitare i danni alle famiglie, comprese quelle dei lavoratori dell’indotto, che di prevenire l’estensione della crisi ad un numero crescente di settori dell’industria e della finanza europee.
Prima del trattato di Maastricht il problema sarebbe stato affrontato, come lo era stato per altri settori industriali alla fine della guerra, con una politica keynesiana, cioè con un massiccio intervento pubblico, sia diretto che attuato mediante il potenziamento degli ammortizzatori sociali. Esso avrebbe avuto come conseguenza un aumento del deficit e del tasso di inflazione, e la conseguente svalutazione della lira. Il peso del piano di ristrutturazione sarebbe ricaduto esclusivamente sui contribuenti italiani, che lo avrebbero verosimilmente accettato come prezzo da pagare per attenuare il degrado del tenore di vita di molte migliaia di famiglie. Il decorso della crisi non sarebbe stato certo indolore, ed avrebbe comunque impoverito l’Italia; ma sarebbe stato progressivo e avrebbe lasciato al sistema produttivo italiano il tempo di assorbire, limitando i danni, una parte, se non la totalità, della mano d’opera in eccedenza.
Oggi questa politica non è più possibile. Dopo l’introduzione dell’euro, l’economia italiana, intesa come un sistema relativamente indipendente, non esiste più, e l’onere di un massiccio intervento pubblico sarebbe indirettamente finanziato da tutta l’industria automobilistica e da tutti i contribuenti europei. Esso sarebbe incompatibile con le ragioni che stanno alla base della politica europea della concorrenza, che impedisce di favorire, con sovvenzioni aperte o nascoste, un’industria nazionale rispetto a quelle degli altri paesi dell’Unione. D’altra parte esso, anche nella forma di un forte potenziamento degli ammortizzatori sociali, sarebbe incompatibile con i vincoli del Patto di stabilità, che a sua volta è la condizione della sopravvivenza dell’euro, e quindi del mercato unico.
Tutto ciò significa che una politica industriale nazionale non esiste più. Ma, d’altro lato, non esiste neppure una politica industriale europea, sia per l’esiguità del bilancio dell’Unione, sia per l’incapacità di questa di prendere decisioni, soprattutto se esse sono difficili e impopolari, a causa del conflitto tra gli interessi nazionali dei suoi Stati membri. Oggi l’Europa è in grave ritardo rispetto ai suoi maggiori concorrenti – gli Stati Uniti e il Giappone – sia negli investimenti in infrastrutture sia in quelli per la ricerca e lo sviluppo, che sono gravemente insufficienti e frammentati. A livello europeo esistono soltanto l’applicazione necessariamente meccanica e burocratica di un codice della concorrenza e la politica deflazionistica imposta dal Patto di stabilità, che costituiscono dei freni permanenti allo sviluppo e che diventano catastrofiche nelle fasi di recessione.
Da questa situazione non si può uscire con la collaborazione intergovernativa, che ha già dimostrato ampiamente la sua totale inefficienza. Con il passare del tempo, e in vista dell’allargamento, l’interesse nazionale tende sempre più a prevalere su quello europeo. Del resto, se il problema della riforma delle istituzioni europee è sul tappeto, ciò dipende proprio dalla acclarata incapacità dei governi di affrontare con il metodo della collaborazione problemi di una certa gravità. L’idea che essi possano farlo di fronte ad una crisi grave, che tocca i rispettivi sistemi economici con gradi diversi di intensità, è semplicemente priva di senso. D’altra parte, la violazione in ordine sparso delle regole della concorrenza e di quelle del Patto di stabilità non potrebbe non provocare la crisi irreversibile dell’euro e della stessa Unione.
Il problema è quindi quello di creare un governo europeo fondato sul consenso democratico dei cittadini, che sappia elaborare e portare avanti una vera politica industriale europea. Ma questo comporta la costituzione di un vero e proprio Stato federale. Non esistono artifici istituzionali che possano nascondere questa urgente necessità. Né è pensabile che uno Stato federale nasca nel quadro dei Quindici o dei Venticinque. E’ ora che i politici europei più lucidi e responsabili si pongano con coraggiosa chiarezza il problema della statualità europea e quello del quadro nel quale uno Stato federale europeo può essere fondato.
Publius