Dopo che la guerra degli Stati Uniti e della Gran Bretagna contro l’Iraq si è conclusa con una rapida vittoria militare (anche se a prezzo della disgregazione sociale e amministrativa del paese, dello sfacelo delle sue strutture sanitarie e della distruzione o della perdita di beni culturali di valore inestimabile) i governi europei stanno andando a gara nel dare prove di amicizia nei confronti degli Stati Uniti, o quantomeno nello smorzare le divergenze che li separano da essi.
Il caso più appariscente è stato quello della Polonia, che riceverà probabilmente l’incarico di amministrare una delle tre zone nelle quali l’Iraq sarà diviso. Ma anche i governi e le forze politiche che, prima dell’inizio della guerra, erano fortemente contrari ad essa cominciano a dare segni di cedimento. In Germania il governo moltiplica i suoi attestati di amicizia nei confronti del governo americano e l’opposizione continua a fare della fedeltà agli Stati Uniti uno dei suoi cavalli di battaglia. Perfino il governo francese ha adottato un atteggiamento di grande prudenza.
Se si ritiene che il potere consista soltanto nella forza militare, nella ricchezza materiale e nel grado di sviluppo tecnologico, questa evoluzione deve essere considerata inevitabile. Gli Stati Uniti sono la sola superpotenza mondiale. Essi dispongono dei mezzi necessari per premiare i vassalli fedeli e per punire i nemici e gli alleati che non condividono la loro politica. La ragion di Stato dei deboli spinge quindi un numero crescente di governi a moltiplicare le prove di lealismo nei confronti della potenza egemone e a passare nel suo campo se prima avevano preso le distanze dalla sua politica. Del resto il governo americano è perfettamente consapevole di questo incontrastata superiorità: esso ha dimostrato, con deprecabile arroganza, di essere deciso a comprare i governi pronti a vendersi e a ricattare quelli che minacciano di opporre una per quanto debole resistenza allo strapotere degli Stati Uniti.
Ma il potere non si identifica soltanto con la forza militare, con la ricchezza e con lo sviluppo tecnologico. Quando non è che questo, esso è labile e di breve durata. In realtà, nell’equilibrio mondiale, il potere è anche e soprattutto consenso da parte di coloro che ad esso sono sottoposti, e il consenso si basa a sua volta su un’idea. Questa peraltro, per tradursi in potere, deve attuarsi attraverso un progetto che accomuni nel perseguimento di un unico obiettivo la potenza egemone e coloro che ne subiscono l’influenza. Ciò è accaduto con l’egemonia napoleonica, che ha diffuso in Europa, e poi al di fuori di essa, gli ideali della Rivoluzione francese; con l’egemonia inglese nell’Ottocento, che ha propagato in una parte rilevante del mondo gli ideali del liberalismo politico e commerciale; e con l’egemonia americana successiva alla Seconda guerra mondiale, che ha coinvolto ed aiutato, nella lotta contro la minaccia del totalitarismo sovietico, le democrazie occidentali, garantendone la sopravvivenza e consolidando i valori ai quali esse si ispiravano.
Oggi invece gli Stati Uniti non hanno altro disegno che quello di estendere la loro supremazia mondiale a scapito di nemici e alleati, tentando di ottenere da questi le risorse necessarie al suo esercizio. Quello dell’esportazione del modello della democrazia è soltanto un debole pretesto per dare una parvenza di giustificazione al loro dominio. Il loro potere è quindi fragile, ma sopravvive in mancanza di alternative. E non sono certo gli stessi Stati Uniti che possono offrirne, perché oggi il solo possibile assetto progressivo dell’equilibrio internazionale, che garantirebbe un suo grado elevato di stabilità e le condizioni per un reale sviluppo economico di una gran parte delle regioni del pianeta, non può che essere basato sul multipolarismo, cioè sulla fine del monopolio del potere degli USA. E questa a sua volta non può provenire da un rafforzamento della Russia e della Cina, ancora deboli e prive di qualsiasi capacità di promuovere nel mondo i valori della pace, della giustizia internazionale e della libertà, ma dalla nascita di un polo europeo, che potrebbe quindi oggi essere il solo portatore di un grande disegno di progresso.
Ma polo significa potere e potere significa Stato. Ciò che è drammaticamente e urgentemente necessario è quindi uno Stato federale europeo. Esso non uscirà ovviamente dalla Convenzione, e del resto nessuno ormai fa più finta di crederci. La Convenzione, scrive Jean-Claude Casanova su “Le Monde”, “deve mantenersi entro i limiti del possibile” e cioè proporre un progetto “che abbia una chance ragionevole di essere adottato dai governi nazionali, o quantomeno da tanti tra di essi che siano sufficienti a imporre una decisione”. Il che vuol dire che essa, come di fatto sta accadendo, non può che proporre un progetto di bassissimo profilo, che apparentemente non cambierà nulla, ma che di fatto, a causa dell’allargamento, sarà un grave passo indietro, perché un meccanismo istituzionale di natura confederale, quali che siano le varianti in cui si presenta, funziona tanto peggio quanto più numerosi sono gli Stati che ne fanno parte.
Non resta quindi, di fronte alle prospettive sempre più oscure che il mondo ha davanti a sé, che la speranza di un sussulto di volontà politica del gruppo dei paesi fondatori, con o senza l’Italia, prefigurato dal vertice del 29 aprile (peraltro assai cauto) tra Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo. Si tratta di un’idea coraggiosa, ma realizzabile, perché è nei paesi fondatori che vive ancora ciò che resta della dignità del vecchio continente e del suo spirito di indipendenza. Del resto l’alternativa “realista” al suo perseguimento sta nell’accettazione passiva dell’egemonia americana e quindi dell’irreversibilità e del progressivo approfondimento del divario politico, economico e tecnologico che divide gli Stati Uniti dall’Europa, dell’uscita di quest’ultima dal filone principale della corrente della storia e del decadimento dei suoi cittadini al rango degradante di sudditi di un impero.
Publius