Dopo il fiasco di Bruxelles, e sotto l’effetto dello spettacolo dell’impotenza dell’Unione in occasione della guerra in Iraq, i governi britannico, francese e tedesco hanno preso atto dell’impossibilità di garantire con le istituzioni attuali una presenza attiva dell’Europa nel mondo e un grado, per quanto modesto, di governabilità dell’Unione; e hanno posto le basi per la nascita di un gruppo-pilota che dovrebbe assicurare un minimo di coordinazione militare tra i suoi membri – in sintonia comunque con i piani della NATO – e concordare un orientamento comune sui punti più importanti della politica europea. Sembrano in questo modo tramontare le speranze suscitate dal tentativo di Francia e Germania di affermare l’indipendenza dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti rafforzando la loro amicizia e coinvolgendo in un progetto comune i governi belga e lussemburghese.
Sta nascendo così un direttorio, paventato dai governi degli Stati medi e piccoli, cioè un’alleanza che si vorrebbe stabile tra i tre maggiori paesi dell’Unione. Sembra del resto, a prima vista, che questa sia la sola via d’uscita possibile dalla paralisi attuale, se non si vuole abbandonare la struttura istituzionale esistente e il quadro a venticinque. Ma si tratta di una via d’uscita soltanto apparente. Anche il direttorio sarà incapace di decidere, sia perché esso sarà una ennesima riproposizione del metodo intergovernativo, sia perché gli orientamenti dei suoi membri su tutti i problemi più importanti della politica europea sono e rimarranno incompatibili. E sarà inaccettabile per gli Stati medi e piccoli che ne sono rimasti esclusi. Essi hanno già protestato per la loro esclusione dal gruppo-pilota e premeranno per esservi ammessi, riassorbendo progressivamente il direttorio nel quadro dell’Unione.
Qualcuno ha visto nell’alleanza anglo-franco-tedesca un’avanguardia capace di rilanciare il processo di unificazione europea. In realtà non è così. Qualunque vero rilancio del processo non può non avere come punto d’arrivo l’abbandono del metodo intergovernativo, e la presenza della Gran Bretagna nel direttorio garantisce che questo obiettivo, e le strade che vi possono condurre, non saranno nemmeno prese in considerazione. Il governo, la classe politica e la grande maggioranza dell’opinione pubblica inglesi sono rigidamente contrari a qualsiasi evoluzione dell’Unione in senso sovrannazionale. Del resto non bisogna dimenticare che i germi della crisi che si sta manifestando oggi in Europa con evidenza drammatica sono stati inoculati nel processo proprio nel momento in cui la Gran Bretagna ha fatto il suo ingresso nella Comunità. Essa vi ha sempre svolto il ruolo di freno alle spinte all’unificazione politica che il processo generava di tempo in tempo, favorendo la deriva dei successivi allargamenti, la cui funzione obiettiva è stata quella di indebolire la coesione della Comunità prima e dell’Unione poi e di allontanare la possibilità del salto federale.
Questa constatazione non deriva certo da un pregiudizio anti-britannico. Bisogna anzi riconoscere che la Gran Bretagna, pur essendo storicamente in declino, è rimasta uno Stato solidamente sostenuto dal consenso dei suoi cittadini, governato da istituzioni democratiche vitali e legato agli Stati Uniti da un vincolo privilegiato, che le consente di avere ancora un ruolo – per quanto subordinato – nella politica internazionale. Per questo essa non ha bisogno dell’unità politica dell’Europa, come ne hanno invece bisogno i più fortemente integrati tra gli Stati dell’Europa continentale, spinti dal grado avanzato della loro decadenza fino alla soglia dell’ingovernabilità. L’interesse della Gran Bretagna è quello che l’unificazione politica dell’Europa non si faccia, e che l’Unione rimanga soltanto una debole area di libero scambio, nella quale la politica britannica, e quella degli Stati Uniti, possano essere fatte valere più facilmente.
La verità è che il problema da risolvere – il solo che consentirebbe il rilancio del processo – è quello della creazione di un potere europeo. E questo non si può risolvere creando alleanze o escogitando complesse istituzioni che lascino intatta la sovranità degli Stati membri, ma costituendo il nucleo di uno Stato federale europeo, dotato di un vero e proprio esercito che si sostituirebbe agli esercitinazionali e nel quale tutti i cittadini, provenienti da Stati grandi o piccoli, avrebbero gli stessi diritti democratici. Anche questo progetto si potrebbe realizzare, all’inizio, soltanto in un gruppo ristretto di Stati, che si allargherebbe successivamente. Ma la sua composizione iniziale non potrebbe andare al di là dei paesi che, sotto la guida di Francia e Germania, hanno dato inizio al processo di unificazione europea.
E’ vero che i governi di questi paesi non hanno ancora maturato la volontà di abbandonare la sovranità. Ma è altrettanto vero che nel quadro dei sei paesi fondatori la richiesta dell’abbandono della sovranità trova orecchie disposte all’ascolto, perché essi hanno un bisogno vitale l’uno dell’altro, un ormai lungo passato europeo comune e un’opinione pubblica sensibile all’idea dell’unificazione politica. Finora l’idea del nucleo federale non si è concretata in una proposta. Ma essa si aggira come un fantasma nelle cancellerie europee, e lo si vede dall’insistenza ossessiva con cui essa viene esorcizzata dai governi euroscettici. Essa potrà tradursi in un’iniziativa concreta quando il precipitare degli eventi farà emergere un’opportunità, e se vi saranno uomini di governo capaci di coglierla.
Publius