N. 38 Dicembre 2005 | Contro la diluizione dell’Unione europea in un’area di libero scambio

La volontà politica indispensabile per mettere in discussione lo status quo e avviare la creazione di uno Stato federale si può ragionevolmente sviluppare solo tra quei Paesi che abbiano maturato le condizioni storiche e politiche che rendano pensabile un simile salto.

La diluizione dell’Unione europea in un’area di libero scambio è un processo che rischia di diventare irreversibile. La profonda eterogeneità dei Paesi che ormai la compongono, la divergenza dei loro interessi nazionali, le loro differenti visioni circa gli obiettivi del processo europeo, la diversa concezione che essi hanno del rapporto da instaurare con gli Stati Uniti spingono ineluttabilmente verso questo sbocco. Molti Stati condividono e favoriscono questa tendenza. Altri, sia perché maggiormente interdipendenti, essendo inseriti da molto più tempo nel processo di unificazione, sia perché convinti di non riuscire da soli a far fronte alle sfide del nuovo secolo e quindi orientati verso la creazione di una più stretta unità, non si rassegnano ancora ad accettare questa involuzione. Perciò essi hanno rimesso sul tappeto l’obiettivo di promuovere all’interno dell’Unione la nascita di un quadro più favorevole al rilancio del processo di unificazione politica attraverso l’iniziativa di un gruppo ristretto di Stati. Per alcuni paesi, Francia e Belgio in testa, il problema non è se è necessaria la creazione di un’avanguardia in seno all’Unione europea, ma piuttosto come, quando e con chi questa dovrà avvenire.

Tutta la storia del processo di integrazione europea è caratterizzata dal fatto che, nelle fasi decisive di avanzamento, è sempre stato un gruppo ristretto di paesi a promuovere il progetto e a trainare gli altri (dalla CECA sino alla creazione dell’euro). Ma la situazione oggi presenta caratteri particolari per quegli Stati che cercano una via per rilanciare l’unificazione: da un lato sono stati ormai raggiunti livelli di interdipendenza così elevati e sono state messe in comune competenze così cruciali che è impensabile sottrarre ancora agli Stati qualche porzione di capacità decisionale senza porre il problema del trasferimento effettivo di sovranità dagli Stati all’Europa. Dall’altro, la pressione delle sfide sempre più complesse poste dal quadro internazionale, in cui stanno emergendo le potenze asiatiche, lascia poco tempo per fare passi concreti nel rafforzare la capacità degli europei di fronteggiare insieme la nuova situazione. Da una parte, quindi, la necessità di prepararsi a compiere il passo più difficile, la creazione di un potere europeo effettivo, con risorse proprie, che sostituisca gli Stati nelle materie di sua esclusiva competenza e che si affianchi loro nelle competenze concorrenti – e questa come unica possibilità reale di far avanzare ulteriormente l’integrazione; dall’altra l’urgenza di questa iniziativa.

Le proposte avanzate per creare “un’Europa a più velocità” sono molteplici, ma non tutte sono realizzabili e non tutte vanno nel senso di rafforzare l’unità degli europei. Esse includono l’ipotesi delle cooperazioni rafforzate in varie aree e tra gruppi diversi di Paesi che dovrebbero portare alla creazione di un’avanguardia composta dagli Stati che alla fine si trovano a cooperare in tutti i settori. Oppure riguardano l’eventualità (ventilata ad esempio dal Ministro degli Interni francese Sarkozy) che i sei maggiori Paesi dell’Unione (Francia, Germania, Gran Bretagna, Polonia, Spagna e Italia), che da soli rappresentano il 75% della popolazione, diventino il motore della nuova Europa decidendo di procedere con l’integrazione in alcune aree, con o senza l’accordo degli altri membri. Altri insistono sul fatto che dovrebbero essere i Paesi dell’area dell’euro, eventualmente coinvolgendo quelli che stanno per entrarvi, ad approfondire l’integrazione (i Presidenti Chirac e, in modo più netto, Verhofstadt), o che un gruppo di Stati animato dallo spirito dei padri fondatori e disposto a sottomettersi a regole precise e più vincolanti rispetto a quelle delle cooperazioni rafforzate, dia vita ad una “piccola casa nella grande casa” (il Ministro degli Esteri francese Douste-Blazy), o che l’iniziativa parta dai Sei fondatori, con chi vorrà unirsi (il Presidente della Repubblica italiana Ciampi e Karl Lamers).

Tutte le proposte hanno in comune l’idea che Francia e Germania devono essere necessariamente al centro del processo, e che le materie in cui è indispensabile l’approfondimento dell’integrazione sono quelle cruciali della politica estera e di sicurezza, incluse la difesa e la lotta al terrorismo, della fiscalità e della protezione del sistema sociale. Con la sola eccezione dell’idea del gruppo composto dai sei maggiori Paesi, tutte le ipotesi prefigurano avanguardie aperte, cui possono aderire tutti gli Stati che concordino sui fini e sulle regole fissate. Ma ciascuna di esse delinea percorsi e obiettivi istituzionali diversi, ed è da questi ultimi invece che dipende la possibilità o meno di successo dell’iniziativa di un’avanguardia.

La proposta che si dimostra più debole è senz’altro quella che mira alla creazione di un gruppo, i sei cosiddetti grandi paesi europei, capace di forzare le decisioni all’interno dell’Unione sulla base della difesa in primo luogo dei propri interessi nazionali, e che quindi propone di fatto la nascita di un direttorio. Questo tentativo è però destinato al fallimento non solo perché innescherebbe delle reazioni dirompenti, ma anche per il fatto di includere un paese come la Gran Bretagna che è storicamente oltre che politicamente contrario a qualsiasi approfondimento dell’integrazione che possa intaccare la sua sovranità. Il governo britannico si trova su posizioni di politica estera e di difesa, di politica monetaria e sociale radicalmente diverse da quelle continentali e ciò rende impensabile che questo gruppo di Stati possa trovare e condividere durevolmente delle posizioni comuni. In particolare, nel settore della difesa, dove la Gran Bretagna cerca di imporre la propria presenza e di affermare la sua leadership – e dove è più diffusa l’idea che essa debba essere un partner irrinunciabile – la realtà è che il governo inglese continua a muoversi nell’ottica di frenare le ambizioni continentali europee e di mantenere la difesa europea nell’ambito di una debole cooperazione tra Stati al servizio della NATO.

In generale, se lo scopo è quello di creare un soggetto europeo capace di una politica estera che conti nel mondo e capace di difendere – e diffondere – le proprie peculiarità sociali, politiche e culturali, la cooperazione tra Stati nazionali evidentemente non basta. Proprio perché si tratta di settori che toccano il cuore stesso della sovranità è impensabile che si possa approfondire l’integrazione in queste aree senza creare uno Stato comune, senza rinunciare in questi settori al potere del proprio Paese di decidere in ultima istanza. Il problema del quadro all’interno del quale un’iniziativa per la creazione di un potere federale europeo è concepibile diventa quindi cruciale.

Se infatti è indiscutibile che il gruppo pioniere debba rimanere aperto a tutti gli Stati che vogliano unirsi, altrettanto evidente è che la volontà politica indispensabile per mettere in discussione lo status quo e avviare la creazione di uno Stato federale si può ragionevolmente sviluppare solo tra quei Paesi che abbiano maturato le condizioni storiche e politiche per considerare pensabile un simile salto. Il dato di fatto storico-politico da cui partire è che solo gli Stati fondatori hanno aderito all’inizio degli anni Cinquanta all’idea che lo sbocco del processo di integrazione europea dovesse essere una Federazione. È negli Stati fondatori che per oltre mezzo secolo le classi politiche e le opinioni pubbliche hanno orientato il loro modo di governare, di agire e di pensare in funzione dello sviluppo, considerato solo qualche anno fa inarrestabile ed ineluttabile, dell’integrazione europea in senso federale. Sotto questo profilo l’area dell’euro ha più i connotati della comunità economica e monetaria che non della comunità di destino. Per questo essa, in quanto tale, è allo stesso tempo troppo eterogenea e troppo ampia per promuovere sin dall’inizio il salto federale. È per contro plausibile aspettarsi che, nel momento in cui l’iniziativa fosse posta sul tappeto, gli Stati che hanno adottato la moneta unica sarebbero i primi a porsi e a porre il problema della loro adesione alla Federazione.

Resta il fatto che hic et nunc è prioritario ed essenziale distinguere la fase di elaborazione della decisione, e della definizione della nascita del nuovo Stato europeo, da quella dell’adesione e della partecipazione alla sua vita ormai affermata. Senza questa distinzione, non solo è impossibile individuare i soggetti del rilancio dell’unificazione politica dell’Europa, ma si rischia di perseguire un disegno, quello della cooperazione più o meno stretta tra gruppi indefiniti di paesi, che farebbe il gioco della disgregazione dell’Unione. Con questa distinzione diventa chiara la responsabilità che ricade innanzitutto su Francia e Germania e sugli altri Paesi fondatori che vorranno essere parte attiva in questa iniziativa. Spetta ai governi, alle classi politiche e alle forze vive della società di questi paesi fare dell’inevitabile “Europa a più velocità”, che viene sempre più spesso invocata, una costruzione solida, capace di dare risposte effettive alle esigenze dei cittadini e di affermarsi sulla scena internazionale.

Publius

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