Negli ultimi sette anni, mentre l’Europa si è attardata in infruttuosi ritocchi istituzionali, nel mondo sono avvenute trasformazioni straordinarie. Basti ricordare che in questo breve arco di tempo si è consumata la fase degli equilibri mondiali dominati dall’unipolarismo americano, che la Cina ha incominciato concretamente a giocare il ruolo di grande potenza economica e militare su scala globale e che i focolai di crisi nell’area mediorientale e centro-asiatica sono addirittura aumentati in numero e in gravità rispetto al recente passato.
Ma è in particolare ai confini orientali dell’Unione europea che ci sono stati cambiamenti profondi: ancora alla fine degli anni Novanta la Russia era un paese economicamente e politicamente in ginocchio, che rischiava addirittura di disgregarsi. Oggi essa è tornata prepotentemente alla ribalta della scena internazionale e sfrutta la sua ritrovata stabilità e le sue immense risorse naturali per rinegoziare i rapporti con il resto del mondo. Il futuro dell’Europa è quindi destinato, ancora una volta, ad essere influenzato in modo decisivo dal corso che prenderà, nel bene o nel male, lo sviluppo di questo immenso paese.
Questo sviluppo dipende essenzialmente da tre elementi. Il primo è costituito dalla difficoltà, per lo Stato erede dell’Unione sovietica, di definire la sua nuova identità; il secondo è rappresentato dall’atteggiamento dell’Occidente nei confronti della Russia, mentre il terzo è dato dalla complementarietà che esiste tra il sistema economico produttivo dell’Europa, fortemente dipendente dalle importazioni energetiche, e quello della Russia, arretrato ma ricco di risorse naturali.
Per quanto riguarda l’identità della Russia, la tendenza, particolarmente diffusa nell’opinione pubblica europea, è quella di credere che questo paese abbia ormai imboccato la via del ritorno all’autoritarismo e al nazionalismo. In realtà, la questione è molto più complessa e soprattutto molto meno definita di quanto non si pensi. È vero che la direttrice fondamentale della politica russa in questa fase è la volontà di tornare ad essere una potenza autonoma in grado di farsi rispettare nel mondo. Sotto questo profilo la lezione inflitta dalle umiliazioni subite negli anni Novanta non ha lasciato molte alternative. Ed è anche vero che nel breve-medio termine difficilmente questo paese potrà diventare una democrazia liberale sulla base del modello occidentale. La sua stabilità politica è tuttora legata alla capacità del governo centrale di riacquisire e di mantenere, e addirittura di rafforzare, il monopolio del potere. Ma se oggi la Russia arriva ad usare l’ideologia anti-occidentale come collante per compattare il paese e rivaluta i simboli del nazionalismo, al tempo stesso è perfettamente consapevole di aver bisogno dell’Occidente per proseguire il proprio processo di modernizzazione e per integrarsi nell’economia globale. Il pragmatismo e il realismo che sono alla base della politica di Mosca la portano a riconoscere che una convivenza cooperativa e non conflittuale rientra nei suoi interessi profondi. Qualunque campo della politica estera russa si analizzi, si nota che se da un lato il criterio guida è sempre – inevitabilmente – quello del rafforzamento della potenza e della sicurezza verso l’esterno del paese, dall’altro le modalità per conseguire questi obiettivi rimangono molto aperte e le scelte compiute per opporsi in particolare agli USA arrivano solo dopo che la Russia si sente direttamente minacciata. Si potrebbero fare molti esempi a questo proposito. Basti per tutti ricordare come la dura reazione russa alla decisione americana di installare le basi antimissile nell’Europa orientale sia venuta dopo anni di tentativi di trovare, da parte russa, forme di accordo o di cooperazione che evitassero di arrivare a questo punto.
Per questo l’atteggiamento dell’Occidente è l’elemento forse più decisivo nell’evoluzione della politica estera russa. Gli americani hanno mantenuto, sin dai tempi di Clinton – nonostante i buoni rapporti con Eltsin e gli aiuti finanziari – un atteggiamento di diffidenza che li ha portati a perseguire in ultima istanza l’accerchiamento e l’indebolimento della Russia. Alla luce dell’attuale situazione mondiale e delle difficoltà in cui si trovano gli USA, è difficile pensare che la politica di Washington possa evolvere. Spetterebbe dunque agli europei assumersi la responsabilità di giocare un ruolo costruttivo nei confronti della Russia e, in un secondo momento, di influenzare in questo senso anche gli USA. L’Europa invece, al di là di generici e formali accordi di cooperazione bilaterali che hanno prodotto risultati minimi, si è limitata a fare da cassa di risonanza alle posizioni americane: ha condiviso l’allargamento della NATO ad Est, ha sostenuto le politiche ostili alla Russia dei governi delle ex-repubbliche sovietiche sovvenzionati dagli americani, ha fatto proprie le critiche strumentali al governo russo. Sotto questo profilo, lo stesso allargamento dell’Unione europea è ambiguo, sia perché l’UE non ha ancora chiarito quali potranno essere i suoi confini e se intende includere in essi quei paesi che mantengono una profonda interdipendenza con la Russia, sottraendoli, di fatto, alla sua sfera di influenza; sia, perché questa Unione – che oltretutto, ormai, ha al proprio interno molti membri ferocemente anti-russi – ha fallito nel suo progetto di diventare un polo in grado di garantirsi e di garantire autonomamente sicurezza e stabilità. La sua coesione e la sua capacità di costituire in questi ambiti, anche solo come processo in fieri, il quadro di riferimento per una politica unitaria dei governi degli Stati membri, sono drammaticamente diminuite in questi anni e in Europa oggi ciascun paese cerca di perseguire il proprio, spesso miope, interesse nazionale. Questo vale per la Polonia o la Repubblica Ceca, che si propongono come le quinte colonne dell’alleato americano, ma vale anche per la Francia e la Germania, impegnate a sviluppare le rispettive politiche bilaterali con la Russia.
La debolezza e la divisione dell’Europa creano pertanto una pericolosa situazione di instabilità e alimentano gli istinti nazionalisti e revanscisti peggiori della politica e della società russe. Nelle attuali condizioni, sia gli Stati europei (sempre più polvere senza sostanza) sia l’Unione europea (strutturalmente incapace di agire come soggetto politicointernazionale) hanno troppo poco da offrire per sperare di costringere la Russia a politiche non aggressive e per spingerla verso atteggiamenti costruttivi. Quello di cui Mosca avrebbe bisogno, è un interlocutore al suo stesso livello, dotato di una strategia globale e in grado di offrirle, in cambio di una politica cooperativa fra eguali, la possibilità di una reale integrazione economica e il sostegno di cui ha bisogno per inserirsi nelle istituzioni internazionali. Un simile ruolo gli europei non possono giocarlo né con la retorica comunitaria né con le piccole astuzie nazionali, ma solo diventando un soggetto capace di influire sui processi mondiali.
Ancora una volta per gli europei il problema è quello di diventare consapevoli che il primo atto di una efficace e positiva politica nei confronti della Russia consiste nel creare il potere necessario per dialogare con essa e non nel cercare di utilizzare gli inadeguati poteri esistenti. Sarà perciò l’esistenza o l’assenza di uno Stato europeo di dimensioni continentali a determinare nei prossimi anni l’evoluzione dei rapporti tra gli europei occidentali e la Russia e tra quest’ultima e il resto del mondo. Ma un simile Stato non ci sarà finché un primo nucleo di paesi, a partire dalla Francia e dalla Germania, più qualche altro paese tra i fondatori o altri che abbiano la volontà di farlo, non prenderà l’iniziativa per crearlo.
Publius