Il mondo è sempre più prigioniero dell’incertezza globale. I governi sembrano disarmati di fronte a crisi sempre più frequenti, numerose, intrecciate, che essi stessi incessantemente contribuiscono a creare, come nel caso delle politiche food-for-oil avviate da alcuni Stati.
Non è colpa della natura se l’emergenza della fame nel mondo si è aggravata negli ultimi mesi. Né dipende dalla sola natura produrre tutto il cibo che è oggi necessario per sfamare l’umanità. Come confermano le stime dell’OCSE, sono le attuali politiche degli Stati che non consentiranno di aumentare le eccedenze alimentari più dello 0,3 per cento rispetto ad oggi entro i prossimi cinque anni: troppo poco per mettere l’umanità al riparo da nuove crisi alimentari mentre la domanda è destinata a crescere e la produzione di grano, mais e riso in alcune regioni chiave è minacciata dall’imprevedibilità del clima.
Paradossalmente l’importanza primaria di garantire cibo a prezzi stabili era meno sottovalutata durante il periodo più acuto della guerra fredda, quando gli USA erano più attenti a non perturbare un settore così delicato come quello alimentare per il mantenimento della sicurezza internazionale. Oggi invece, soprattutto proprio a causa degli Stati Uniti e dei paesi occidentali, il mercato dei prodotti agricoli è fortemente distorto dallo sfruttamento dei terreni agricoli per produrre biocarburanti. Uno sfruttamento che ha assorbito il sessanta per cento dell’aumento delle produzioni agricole degli ultimi tre anni e che, sempre secondo l’OCSE, nei prossimi anni non scenderà sotto al quaranta per cento dei guadagni produttivi se non cambieranno le politiche agricole negli USA, in Brasile e nell’Unione europea. Tutto ciò in un quadro in cui il tasso di crescita della produttività agricola si è dimezzato rispetto al 1980 e in cui gli aiuti internazionali allo sviluppo della produzione agro-alimentare, nello stesso periodo, si sono ridotti dal diciassette all’attuale tre per cento circa sul totale degli aiuti stessi.
Va da sé che occorrerebbe promuovere un’altra rivoluzione verde ed un’altra politica agricola in tutti i continenti per offrire cibo a sufficienza ad un mondo in continua crescita demografica. Oggi invece si assiste solo ad un aumento continuo della competizione internazionale per accaparrarsi le risorse naturali, le materie prime e i prodotti agricoli resi sempre più scarsi dal non governo del mondo.
Di fronte a tutto ciò gli europei o rimangono passivi, o si rendono corresponsabili di scelte avventate, destinate ad acuire le tensioni sui mercati e addirittura a rivolgersi contro gli stessi europei, come quella di allinearsi agli USA nel perseguire l’obiettivo di sostituire entro il prossimo decennio il dieci per cento dei consumi di combustibili fossili con biocarburanti. È evidente, infatti, che l’agricoltura europea non è assolutamente in grado di produrre da sola tutto il biocombustibile previsto dai piani dell’Unione europea. Così, per rispettare gli impegni presi, i paesi dell’Unione dovranno importare l’etanolo prodotto dal mais statunitense e dalla canna da zucchero brasiliana, con buona pace dei disegni di diminuire la dipendenza energetica dell’Ue. La dura realtà è che, mentre per gli Stati Uniti e il Brasile la decisione di diventare leader mondiali nella produzione di biocarburanti rientra in una strategia rischiosa per il resto del mondo, ma coerente con le ragion di Stato di questi due grandi paesi, per gli europei una simile politica rappresenta l’ennesimo grave errore di calcolo. Un errore frutto del compromesso fra politiche nazionali che sono sempre più contraddittorie ed eterogenee e che non condividono più né un interesse comune né una strategia continentale circa il ruolo e il destino della politica agricola e lo sviluppo della politica energetica.
Purtroppo questo errore rischia di non essere l’ultimo nella misura in cui gli europei si illudono di poter fronteggiare le nuove emergenze attraverso forme di cooperazione che non intaccano la sovranità degli Stati nei campi cruciali della politica estera, della difesa e della politica economica.
Da questo punto di vista è emblematico il recente rapporto commissionato ad un gruppo di esperti dal governo di Parigi in vista del semestre di presidenza francese dell’Unione europea (L’Europe dans la mondialisation: état des lieux). In esso si sostiene che, per rispondere alle sfide globali, all’Europa basterebbe dotarsi di una governance rafforzata tra piccoli gruppi di paesi in alcuni settori chiave, rispetto ai quali dovrebbero essere individuati pragmaticamente di volta in volta gli interessi comuni. La massa critica, in termini demografici, economici e produttivi che ha raggiunto l’Unione europea a seguito del processo di allargamento, farebbe il resto. È chiaro che un sistema del genere sarebbe destinato al fallimento: le sfide globali, per poter essere affrontate adeguatamente presuppongono innanzitutto una visione generale all’interno della quale pensare le singole politiche. Continuare a procedere settorialmente, mantenendo di fatto all’interno di gruppi di Stati cooperanti lo stesso metodo usato oggi nell’insieme dell’UE, impedirebbe di elaborare proprio quella strategia complessiva e coerente che manca oggi all’Europa e che sarebbe concepibile solo nell’ambito di un sistema di governo realmente europeo, dotato di poteri effettivi e legittimato dal consenso dei cittadini
Per questo, l’unico reale interesse comune dei paesi europei, e in primo luogo della Francia e della Germania, consiste ormai nel fondersi in uno Stato federale. Mentre non va dimenticato che nella prima metà del ventesimo secolo il Commonwealth britannico, benché avesse un peso demografico pari a un terzo della popolazione mondiale (e uguale a quello della Cina di allora), e avesse un peso economico e commerciale superiore a quello degli altri Stati nel mondo si ridusse nell’arco di pochi decenni ad un contenitore vuoto proprio per il fatto di non essere uno Stato.
Oggi un nucleo federale costituito intorno a Francia e Germania e qualche altro paese fondatore, avrebbe fin dall’inizio una popolazione superiore a quella della Russia o del Giappone, cioè di attori riconosciuti dell’equilibrio mondiale. Esso costituirebbe indiscutibilmente il quadro credibile di governo di un’area che rappresenta la più sviluppata economia mondiale e il crocevia dei commerci tra Nord e Sud ed Est e Ovest del mondo. Inoltre un simile nucleo federale iniziale aperto all’adesione degli altri paesi europei che accettassero di farne parte, sarebbe destinato a non rimanere a lungo nella sua composizione iniziale, e ad espandersi rapidamente, accrescendo la sua influenza in campo internazionale.
Niente e nessuno, tranne l’attuale ignavia degli europei, impedisce di sviluppare questo progetto.
Ma spetta in primo luogo a Francia e Germania scegliere al più presto se vogliono creare uno Stato federale europeo dotato dei mezzi e delle istituzioni per governare le politiche utili agli europei e al mondo, oppure se vogliono correre il rischio, sempre più incombente, di subire le conseguenze della crescente anarchia internazionale.
Publius