N. 56 Luglio 2011 | Le primavere arabe e l’assenza dell’Europa

La precarietà del quadro politico, economico e finanziario mondiale, la fragilità delle prospettive di integrazione euro-mediterranea e l’incapacità degli europei di proporre ai paesi africani un piano di co-sviluppo pongono seri dubbi sulle possibilità di successo delle primavere arabe.

La ribellione delle masse arabe contro regimi corrotti e autoritari porterà effettivamente all’affermazione della democrazia e alla crescita civile ed economica del Nord Africa e del Medio Oriente?

Molte incognite impediscono ancora di dare una risposta definitiva a questa domanda. Ma tre in particolare prevalgono su tutte: la persistente precarietà del quadro politico, economico e finanziario mondiale; l’evidente fragilità delle prospettive di integrazione su scala regionale nord africana ed interregionale euro-mediterranea; la capacità degli europei di proporre un piano di co-sviluppo euromediterraneo.

I dati di fatto da cui partire non sono incoraggianti. La prima incognita è troppo nota e dibattuta perché sia necessario approfondirla ulteriormente in questa sede: basti ricordare che non passa giorno senza che si levi un nuovo grido di allarme sullo stato del mondo. Sulle altre due, invece, vale la pena soffermarsi, perché generalmente non vengono analizzate con la dovuta attenzione e di conseguenza, la politica rischia di perdere il contatto con la realtà – come sta avvenendo in Europa in merito alla crisi nel Mediterraneo.

Per quanto riguarda l’integrazione intra-regionale nel Nord Africa e quella interregionale con l’Europa, il quadro è chiarissimo: basta scorrere i dati forniti dalle agenzie dell’ONU e dalle commissioni di lavoro dell’Unione africana per vedere che le economie dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente non sono integrate fra loro, e che integrarle implica predisporre un piano di dimensioni e di durata notevoli. Escludendo il petrolio, il Nord Africa ha una capacità di esportazione che, nel complesso, è ancora appena paragonabile a quella della Svizzera. Mentre il commercio intra-regionale tra gli Stati dell’Unione del Maghreb arabo, una delle otto Comunità economiche regionali riconosciute dal Trattato di Abuja del 1991 per la creazione, nell’arco di quarant’anni, della Comunità economica africana, pesa solo per il tre per cento dell’intero commercio della comunità magrebina (una quota insignificante rispetto, per esempio, a quella registrata nell’ASEAN, dove il commercio intra-regionale pesa almeno per un quarto del totale). Né l’azione della Lega araba, né quella dell’Unione africana, né tantomeno i piani di cooperazione promossi dall’Unione europea sono dunque stati in grado di cambiare in modo significativo la situazione negli ultimi vent’anni. Il quadro non è migliore quando si considera lo stato di integrazione tra la riva sud del Mediterraneo ed i paesi europei, in quanto le principali voci del commercio fra le due sponde di questo mare restano esclusivamente quelle riconducibili al greggio e al gas.

Per quanto riguarda invece il ruolo degli europei, è sotto gli occhi del mondo intero come l’Europa, anziché lavorare per sciogliere i nodi cruciali relativi all’integrazione, stia agendo con lo sguardo rivolto ad un passato ormai superato, quando alcuni paesi europei potevano far valere un ruolo di leadership nel Mediterraneo e quando gli USA erano disposti a proteggere gli interessi europei. È a causa di questa miopia politica che l’intervento militare per scopi umanitari in Libia si è trasformato in una sanguinosa avventura e in una nuova emergenza profughi per la regione (Tunisia ed Egitto hanno dovuto accogliere quasi un milione di rifugiati, contro qualche decina di migliaia accolti dall’Europa). Ed è sempre a causa di questa miopia che gli europei stanno sottovalutando le implicazioni strategiche della crisi di regime in Egitto, il paese cerniera tra le regioni del Maghreb e del Mashrek e il più importante per peso demografico ed influenza politica nel mondo arabo.

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Che conseguenze trarre da questo quadro? È evidente che il futuro della pace, del progresso sociale ed economico e della democrazia nel Mediterraneo, dipende dalla capacità degli europei di avviare un processo di effettiva integrazione euro-mediterranea, nel cui ambito possano essere concretamente sostenuti i progetti di unione intra-regionale e un piano di co-sviluppo tra le due sponde del Mediterraneo. Ma a sua volta questa capacità degli europei dipende dalla loro volontà politica di agire come un soggetto unico, e non più come inglesi, francesi, tedeschi o italiani.

È proprio questa volontà che non si è finora manifestata. C’è però un terreno, quello energetico, sul quale gli europei saranno costretti a compiere delle scelte strategiche, pena la fine di ogni realistica prospettiva di sostenere lo sviluppo e la crescita delle loro stesse società, economie e capacità produttive per i prossimi decenni. Si tratta di scelte che non potranno prescindere da un lato da un preciso piano politico europeo e, dall’altro lato, da un concreto piano di cooperazione con i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Gli aspetti tecnici di questo piano sono già noti, ma il quadro politico in cui esso potrà essere realizzato deve ancora essere definito. Dal 2009 molte imprese e gruppi finanziari europei, soprattutto tedeschi (come Deutsche Bank, E.ON, RWE, Siemens), hanno avviato un progetto energetico particolarmente ambizioso, il DESERTEC, basato sullo sfruttamento su larga scala dell’energia solare ed eolica da produrre in Nord Africa per soddisfare crescenti quote di consumi elettrici sia dei paesi africani sia di quelli europei. Dopo l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima e la decisione del governo tedesco di rinunciare al nucleare, la realizzazione di questo progetto è diventata ancor più d’attualità per gli europei. Il problema è che realizzare DESERTEC implica finanziare la costruzione di infrastrutture per un costo di circa quattrocento miliardi di euro nell’arco dei prossimi quarant’anni, e coinvolgere oltre trenta governi di altrettanti paesi europei ed africani; questo per coprire entro il 2050 il fabbisogno prevedibile di elettricità di gran parte dei paesi del Nord Africa e Medio Oriente e almeno il 15 per cento di quello degli europei attraverso una rete di centrali fotovoltaiche ed eoliche interconnesse tra loro dal Mare del Nord alla catena montuosa dell’Atlante, per passare poi dal golfo libico fino al Mar Rosso e all’Oceano indiano. Un simile sforzo sarà compatibile con gli sviluppi politici della “primavera araba”? E in ogni caso, chi e come coordinerà la realizzazione di questa complessa cattedrale energetica nei deserti africani nell’ottica di soddisfare i bisogni delle future generazioni europee e arabe?

Per rispondere a queste domande è inevitabile riferirsi al precedente del Piano Marshall e al ruolo che questo ebbe nel contribuire alla ricostruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Un Piano Marshall verso i paesi arabi, promosso e sostenuto dagli europei, sarebbe senz’altro necessario. Ma non è sufficiente evocarlo. Occorre innanzitutto promuovere la realizzazione delle due premesse che furono indispensabili all’attuazione di quel piano e da cui non è possibile prescindere neppure oggi. Queste premesse consistevano, secondo lo storico discorso pronunciato nel 1947 dal Generale Marshall, nell’affermazione inequivocabile e pubblica – sulla base del riconoscimento dell’interesse profondo americano alla rinascita europea – della volontà del governo degli Stati Uniti d’America di aiutare gli europei e nella disponibilità di questi ultimi ad elaborare un piano comune fra più paesi.

Ebbene, il governo degli Stati Uniti d’Europa non esiste ancora. Per questo non può manifestarsi alcuna reale ed efficace volontà europea. D’altra parte le politiche nazionali europee sono destinate a continuare a dividere, invece di unire, i paesi arabi. Finché l’azione degli europei si baserà sulle politiche nazionali, non ci potrà dunque essere alcun Piano Marshall in chiave europea nel Mediterraneo.

In conclusione, affinché la rivoluzione araba abbia successo, occorre che gli europei intraprendano a loro volta e al più presto la rivoluzione federale europea. Solo manifestando la volontà di superare definitivamente le sovranità nazionali e compiendo i primi passi concreti per la creazione di uno Stato federale europeo – anche se inizialmente solo un gruppo pioniere di paesi membri dell’UE vorrà assumere una simile iniziativa – gli europei potranno contribuire a promuovere una svolta storica nei rapporti tra le due sponde del Mediterraneo e ad inaugurare una nuova era di cooperazione fra più continenti.

Publius

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