N. 67 Marzo 2016 | Dopo Bruxelles

Gli attentati terroristici di Bruxelles hanno mirato al cuore un’Europa che già sembra in preda al caos per le sue debolezze strutturali. Eppure tutto quello che è necessario e urgente fare è sul tappeto, ma se non si riesce a iniziare a metterlo in pratica è perché implica la necessità di una cessione di sovranità ed un vero governo europeo federale.

Gli attentati terroristici di Bruxelles hanno mirato al cuore dell’Europa. Come era già accaduto a Parigi, con in più l’obiettivo di colpire il simbolo della capitale dell’Unione europea. Ma l’Europa, attaccata come comunità proprio per i valori che rappresenta, è impotente, perché non è in grado di rispondere unita alla minaccia. E non perché gli europei non si siano mai posti il problema di creare un sistema di sicurezza comune, ma perché non si sono mai impegnati a realizzarlo davvero.

Si può risalire fino al Consiglio europeo straordinario del 21 settembre 2001, all’indomani dell’attentato delle Torri gemelle. L’incontro si era concluso sottolineando che “è necessario migliorare la cooperazione e lo scambio di informazioni tra i servizi di intelligence dell’Unione. A questo scopo occorre creare squadre di investigazione comuni. Gli Stati membri devono condividere tutte le informazioni utili riguardanti il terrorismo con Europol, sistematicamente e senza indugi”. Come ricorda in un’intervista alcuni giorni fa Federica Mogherini, l’Alto rappresentante per la politica estera, sono passati 15 anni, e da allora la Commissione ha continuato a stendere rapporti ed elaborare proposte che evidenziano le carenze del sistema di sicurezza in Europa parcellizzato in 28 sistemi nazionali e che indicano le misure da prendere. Ma non sono bastati neppure i fatti di Parigi di Charlie Hebdo, né quelli del Bataclan a smuovere i singoli paesi, cui spetta la responsabilità e il compito di agire per costruire un sistema integrato, dato che sono loro, ancora, i “sovrani”. Il risultato è stato che la rete terroristica si è radicata e rafforzata progressivamente, lasciandoci la certezza che la minaccia incomberà a lungo e sarà sempre più drammatica se in Europa la politica non si libererà dall’illusione di poter demandare sempre agli Stati Uniti i problemi della sicurezza interna ed esterna.

Per di più, gli attentati non potevano colpire l’Europa in un momento più propizio per favorire i piani dei terroristi. L’Unione sembra già in preda al caos, per le sue debolezze strutturali: per l’incapacità di gestire i flussi migratori, per il rischio della Brexit, per i segni della ripresa di una crisi economica che minaccia di mettere nuovamente in ginocchio le economie più fragili, nonostante gli sforzi e i sacrifici di questi anni. I cittadini disorientati, e male indirizzati dal populismo dilagante, non riescono a capire quali soluzioni sono da sostenere nel loro stesso interesse.

Eppure tutto quello che è necessario ed urgente fare, sia per affrontare il problema della sicurezza, sia per risolvere il problema del governo economico, è ormai sul tappeto, e nelle sedi europee e tra i governi se ne discute quasi quotidianamente. Nel primo caso è stata identificata la necessità di rafforzare il sistema di Schengen attraverso il controllo congiunto delle frontiere esterne (inclusa la nascita di un corpo di guardia di frontiera e una guardia costiera europee), nonché dando vita ad un’unica politica per l’immigrazione, l’asilo e il sostegno all’integrazione; ed è chiarissimo il fatto che bisogna sviluppare un’efficace forza di intelligence europea, trasformando Europol in una effettiva agenzia di polizia federale europea e rinforzando il Sistema di informazioni di Schengen (SIS). E’ altresì evidente che occorre, parallelamente, avviare le misure necessarie per impostare una vera politica estera e di sicurezza europea per rilanciare un piano che sia davvero credibile per la stabilità e lo sviluppo pacifico di aree come quella del Medio Oriente o del Nord Africa. Anche gli strumenti per rafforzare la governance della zona euro sono ormai conosciuti e analizzati a fondo: serve creare un Ministro del Tesoro europeo controllato democraticamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio nella sua veste di Camera degli Stati che decide a maggioranza; un ministro dotato di poteri politici per perseguire politiche economiche europee e intervenire sui bilanci nazionali in caso di gravi violazioni delle regole comuni, e che possa far leva su un bilancio ad hoc di dimensioni almeno dignitose, alimentato da risorse proprie, sia di natura fiscale, sia derivate da emissioni di bonds.

Se non si riesce a incominciare a mettere in pratica queste proposte è perché la crisi ha alimentato il clima di sfiducia reciproca all’interno dell’UE, ma soprattutto perché le decisioni da prendere implicano la creazione di un vero governo europeo federale e il conseguente salto della cessione di sovranità da parte dei governi nazionali. D’altro canto, il mantenimento dello status quo istituzionale ha dimostrato di non funzionare. Non funziona il metodo della cooperazione tra Stati, che si blocca proprio perché questi ultimi, al dunque, non riescono ad accettare di privarsi di prerogative essenziali per l’esercizio della loro sovranità, per quanto vuota e fasulla questa si dimostri poi alla prova dei fatti. Come spiegava bene nei giorni scorsi in un’intervista alla televisione tedesca un esperto di problemi della sicurezza del London’s King College, Peter Neumann, “tutti vogliono ricevere le informazioni dagli altri, ma nessuno vuole condividere le sue; tutti vogliono il coordinamento, ma nessuno vuole essere coordinato….”.

Il problema è dunque il salto di qualità istituzionale con la creazione dell’unione politica, e il manifestarsi della volontà politica in tal senso almeno tra alcuni governi, a partire da quello tedesco e da quello italiano, che sono i più avanzati su questo terreno; e dalla loro capacità di trascinare con sé la Francia, che invece continua ad opporsi all’ipotesi dell’Europa federale. Contro le resistenze della conservazione nazionale gioca, a favore dell’Europa, il fatto che non esiste un’alternativa credibile in termini di prospettive di progresso, benessere e sicurezza rispetto alla scelta unitaria. Nessuna proposta nazionale o nazionalista può infatti aspirare a diventare davvero ipotesi di governo in Europa, se non nei paesi periferici e ancora fuori dalla zona euro. Nei paesi chiave dell’area euro questa scelta provocherebbe l’immediata disgregazione del sistema e il fallimento a catena degli Stati.

Del resto è proprio la consapevolezza della necessità di completare l’unione monetaria con l’unione politica che ha spinto la Gran Bretagna a negoziare con l’UE uno status speciale, dato che questo paese non solo si è ritagliato un opting out particolare per quanto riguarda l’euro, ma, analogamente, si tiene fuori anche da tutti gli altri dossier, inclusi quelli relativi alla sicurezza. Per questo ha poco senso la critica che viene mossa da più parti all’accordo pattuito tra il regno Unito e l’UE, che viene accusata di aver accettato compromessi sui principi fondamentali alla base dei Trattati, sia per quanto riguarda la “ever closer union”, sia per la libera circolazione delle persone. In realtà, si tratta di un compromesso che, nel formalizzare lo status speciale di Londra sin dalla nascita della moneta unica e in seguito ai successivi avanzamenti dell’integrazione continentale, fissa al tempo stesso l’impegno inglese a collaborare lealmente per non rallentare o bloccare il processo di approfondimento politico della zona euro. In passato la Gran Bretagna ha sempre preteso – con notevole successo – che l’UE si adeguasse al suo passo e si uniformasse al proprio progetto incentrato sullo sviluppo del mercato interno, respingendo il progetto politico. Oggi Cameron non chiede di aggiungere molto ai “privilegi” di cui il suo paese già gode (per questo punto specifico rimando all’analisi di Giulia Rossolillo Patti chiari, amicizia lunga: l’accordo sullo status del regno Unito nell’Unione europea, pubblicato su SIDIBlog il 28 febbraio – www.sidiblog.org/2016/02/29/patti-chiari-amicizia-lunga-laccordo-sullo-status-del-regno-unito-nellunione-europea). Ma, in compenso, ha il pregio di fare chiarezza. La realtà è che gli inglesi, attraverso questo patto, riconoscono una sconfitta storica, quella di non aver potuto fermare il progetto di integrazione politica europea; e su questa base impostano la loro nuova posizione nell’UE, che parte dal riconoscimento della necessità che tale progetto si completi sul continente e che il Regno Unito possa far parte del cerchio di integrazione immediatamente esterno, come membro del mercato unico. Dal punto di vista degli europei, questi si ritrovano finalmente ad agire per costruire l’unità politica in un quadro che, in conseguenza dell’accordo, si è de facto rifondato sulla base del principio dei cerchi concentrici (l’esatto opposto rispetto all’Europa à la carte pensata nel Trattato di Lisbona, i cui strumenti di flessibilità concepiti in questa ottica diventano infatti inutili). In questo modo, tutti coloro che non riuscivano a concepire questo ineluttabile passaggio nei termini di una rottura con la GB e del quadro comunitario, grazie all’iniziativa inglese e ai risultati raggiunti, possono finalmente superare questo scoglio psicologico e mentale, e iniziare ad agire concentrandosi sul problema dell’integrazione differenziata a partire dall’Unione monetaria.

Per la battaglia federalista, l’accordo siglato con Londra ha dunque, di fatto, un valore fortemente positivo, perché elimina un ostacolo formidabile che indeboliva il già frammentato fronte delle forze europeiste.

Ovviamente c’è da sperare che, anche grazie a questo compromesso, il Regno Unito decida a giugno di accettare il suo nuovo status all’interno dell’Unione e di non uscire dal quadro comunitario. I contraccolpi sarebbero infatti gravissimi: sicuramente per Londra, che si troverebbe isolata e marginale, e pagherebbe un prezzo altissimo in termini economici e politici. Ma anche per l’UE, che in questo momento di fragilità verrebbe investita da un’ondata di scetticismo sulla sua tenuta che potrebbe trasformarsi in una drammatica fuga di capitali dall’Europa.

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Se nel caso degli accordi con la Gran Bretagna, è stata l’ottica del rafforzamento della costruzione politica europea a guidare il negoziato, lo stesso criterio sembra aver funzionato anche per quanto riguarda il recente negoziato con la Turchia. Al di là del fatto che l’efficacia dell’accordo dipenderà dalla capacità degli europei di risolvere i nodi cruciali della gestione dei rifugiati in Grecia e della ripartizione dell’onere dell’accoglienza tra i diversi paesi, è importante riuscire a capire se in questo caso l’Unione, per cercare di scaricare il problema, ha semplicemente abdicato al rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, come molti ritengono, o se viceversa ha agito in base alla morale (politica) della responsabilità.

E’ un fatto che l’Unione è sotto assedio e sotto scacco dei trafficanti di esseri umani e dei nemici che cercano di disgregarla sottoponendola ad una tensione diventata insopportabile. Questa situazione drammatica alimenta la divisione tra i paesi europei, il populismo e la xenofobia e rischia di degenerare. Un’Europa federale, dotata di una forte politica estera e di una forte stabilità e coesione interna non si troverebbe in queste condizioni. Ma la realtà dell’Europa è quella delle divisione e di un difficile tentativo di unificazione. In questo quadro interrompere il ricatto e reagire (in modi che penalizzano innanzitutto non la richiesta di asilo, ma l’utilizzo di mezzi illegali per raggiungere le coste europee) diventano fondamentali per fermare il caos. Sta ora agli europei, dopo aver fatto un primo passo per cercare di riprendere il controllo della situazione, riuscire a dar vita, come la Commissione già propone, agli strumenti per intervenire efficacemente e con reale senso di responsabilità e rispetto per i diritti umani nella gestione dei richiedenti asilo.

Inoltre l’accordo, soprattutto tenendo conto del fatto che la Turchia ha alla fine accettato di cedere su alcune condizioni che aveva inizialmente posto in modo ricattatorio agli europei, è anche la dimostrazione della forza politica intrinseca nel progetto europeo nella misura in cui inizia a definirsi sul piano istituzionale. La volontà di Ankara di tornare a guardare nuovamente all’UE e di cercare di riprendere il progetto di giocare un ruolo di cerniera tra Europa e Medio Oriente (che in questi ultimi anni aveva abbandonato, anche innescando una grave involuzione del suo sistema politico), sicuramente è in larga parte il frutto della grave sconfitta subita dai suoi progetti di egemonia culturale e politica nel mondo musulmano; ma è anche la dimostrazione della forza di attrazione ancora potente che sa esercitare il progetto europeo. Questa attrazione, che si concretizza nella proposta di associazione e nell’apertura del mercato europeo a paesi terzi, torna ad essere forte proprio nella misura in cui si prospetta, anche grazie all’accordo con Londra, la rifondazione della costruzione comunitaria sulla base di cerchi concentrici che delineano diversi gradi di integrazione e di partecipazione al processo unitario; e che rendono credibili le aperture verso paesi che non possono certo partecipare al progetto comunitario originario fondato sull’integrazione politica tout court.

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Detto tutto questo, rimane il fatto che la politica, per giocare un ruolo positivo, e per invertire il clima di crescente sfiducia verso il progetto unitario, non ha altra via che impegnarsi per accelerare la creazione di istituzioni, poteri e risorse federali in Europa.

Per gli europei è arrivato il momento di capire che, nell’attuale situazione drammatica del mondo, l’Europa si trova confrontata con dei problemi e con una brutalità che si era illusa fossero scomparsi dalla storia, e che invece si manifestano ogni giorno e la sfidano a costruire quel potere sovranazionale federale capace di indicare all’intera umanità la via del progresso e della pace.

Publius

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