L’invasione russa dell’Ucraina ha spazzato via l’illusione coltivata per oltre trent’anni dai governi europei e dalle opinioni pubbliche nazionali che ormai la guerra per il vecchio continente fosse solo un triste ricordo del passato o un problema che riguardava altre parti del mondo. Oggi la sicurezza dell’Europa è invece in serio pericolo.
A due anni dall’invasione russa dell’Ucraina, il bilancio del conflitto è purtroppo assai incerto. Nonostante i grandi sforzi, la resistenza ucraina sembra vacillare, mentre la Russia, forte delle forniture militari e dell’assistenza che riceve dalle autocrazie alleate, in particolare Iran e Cina, potrebbe riuscire a far volgere le sorti della guerra a suo vantaggio. La prospettiva di una sconfitta chiama in causa le democrazie occidentali che hanno sostenuto finora il governo di Kiev, ed in particolare l’Unione europea, la cui stabilità e sicurezza dipendono direttamente dagli esiti del conflitto russo-ucraino.
Il progetto di Putin per la restaurazione dell’impero russo non prevede infatti solo la destabilizzazione dell’Ucraina e l’annessione di gran parte del suo territorio. Altre regioni dove vivono importanti minoranze russofone sono già nel mirino del Cremlino, in particolare la provincia moldava della Transnistria, e soprattutto, l’Estonia, Stato membro della NATO e dell’Unione europea. È chiaro ormai che una politica dell'”appeasement” porterebbe la Russia a rivendicare sempre maggiori territori, il che avrebbe come effetto la totale destabilizzazione dell’Europa e delle sue istituzioni comuni. Il momento opportuno che il Cremlino aspetta per provocare un’escalation in questa direzione potrebbe arrivare già tra pochi mesi con l’eventuale ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, dato favorito nei sondaggi, il quale ha già fatto intendere di non volersi impegnare per garantire la sicurezza degli Europei.
Alla luce del possibile precipitare degli eventi, è un bene, dunque, che sia stato finalmente avviato nell’opinione pubblica, tra le cancellerie nazionali e nelle istituzioni europee un dibattitto sulla creazione di una difesa comune: sembra maturare la percezione condivisa che l’Europa debba diventare in grado di proteggersi da sola senza dipendere in modo così determinante dagli Stati Uniti e superando la dimensione solo nazionale della difesa, che impedisce la mobilitazione di risorse sufficienti per la creazione di una forza deterrente credibile nei confronti dei nemici esterni, a partire dalla Russia. Resta tuttavia molta confusione su cosa significhi creare una difesa comune europea e sui modi per costruirla.
Nel dibattito in corso diverse voci propongono delle cosiddette “scorciatoie” per istituire una “unione della difesa” a Trattati esistenti. Le proposte generalmente prevedono lo sviluppo di un’iniziale capacità militare dell’Unione a partire da alcune basi giuridiche esistenti, quali l’astensione costruttiva ex art. 31.1 TUE per le decisioni relative alla politica estera e di sicurezza comune, gli art. 46.1 e 46.2 TUE sulla cooperazione strutturata permanente in ambito della difesa, oppure attraverso il ricorso ad accordi separati tra alcuni governi.
Si tratta purtroppo di soluzioni già sperimentate senza successo in passato, fondate sul modello dell'”Europe à la carte”: gruppi di Stati membri si impegnano in azioni coordinate di natura essenzialmente intergovernativa dotate di una patina di “legittimità europea”, ma rese possibili solo dalla convergenza temporanea di interessi e logiche nazionali distinte. Inoltre, non stiamo parlando di azioni o strumenti veramente europei, bensì nazionali, che richiedono necessariamente l’approvazione dei Parlamenti degli Stati membri, e dipendono in modo pressoché totale dalle risorse messe a disposizione da ciascun di essi.
Uno degli ostacoli maggiori alla creazione di una vera difesa europea è infatti di natura politica, e riguarda la difficoltà praticamente insormontabile di elaborare una visione comune europea degli obiettivi di politica estera partendo dal tentativo di armonizzare 27 interessi nazionali spesso divergenti (interessi sia politici, sia geostrategici che economici). Infatti, i vari tentativi di procedere con questo metodo in passato, non hanno mai riscosso particolare successo (si pensi alle missioni militari UE nel Mar Roso e nel Sahel o, più recentemente, all’introduzione di PESCO per il finanziamento di progetti comuni nell’ambito della difesa), né nessuna di queste misure è servita come “trampolino” per costruire una vera difesa europea, perché tutte mancavano del presupposto essenziale, cioè la creazione di una politica estera dell’Unione che fosse espressione della volontà comune maturata all’interno delle sue istituzioni, in particolare del Parlamento e del Consiglio. Si aggiunga che, se non hanno mai funzionato in passato, oggi queste soluzioni sono del tutto inadeguate rispetto alla situazione presente perché – per il modello e i presupposti su cui si basano – non sono più proponibili di fronte al rischio di una guerra sul territorio europeo contro una potenza nucleare.
Se si vuole fare la difesa europea sul serio, dunque, non ci sono scorciatoie: è necessario sostenere quei trasferimenti di sovranità a livello europeo che permettano di dotare l’Unione di una sua vera autonomia di governo, non solo liberandosi dai veti e dai ricatti degli Stati membri, ma anche creando le condizioni per poter esprimere un genuino interesse europeo, comune in quanto generale. È quanto è avvenuto quando si è deciso di fare davvero l’Unione monetaria (superando il Sistema monetario europeo e creando il Sistema europeo delle Banche centrali) o, più recentemente, quando si è creato il primo strumento di politica fiscale dell’Unione con il Recovery fund (che è gestito dalla Commissione con debito raccolto sui mercati da quest’ultima a nome dell’Unione). Tutto il resto, dalle cooperazioni rafforzate in campo militare agli accordi intergovernativi, non serve a creare una difesa europea, ma al massimo a massimizzare la forza e la resilienza delle difese nazionali tramite strumenti di cooperazione in una dimensione intergovernativa.
Non si vuole qui negare che, data l’urgenza, è bene iniziare a fare alcune cose con le regole esistenti. Sia benvenuta allora l’accelerazione sulla creazione di un’industria europea della difesa (anche grazie all’introduzione di un Commissario ad hoc nella prossima legislatura) per mettere in campo immediatamente la condivisione delle risorse e il know how necessario al riarmo dell’Europa. Tuttavia, la condizione necessaria per poter creare una difesa europea continua ad essere, ora più che mai, una riforma del quadro istituzionale dell’Unione.
Questa riforma oggi è possibile, e anche in tempi rapidi, perché ci sarebbero le condizioni per realizzarla e renderla operativa entro la fine del 2025. Grazie al lavoro dei federalisti nella società civile e nelle istituzioni UE, lo scorso 22 novembre il Parlamento europeo ha infatti attivato la procedura di revisione dei Trattati per riformare l’Unione sulla base di un progetto ambizioso volto a sviluppare una vera politica estera europea e dare inizio ad un’integrazione militare. Le riforme istituzionali richieste dal Parlamento prevedono in particolare l’estensione del voto a maggioranza in Consiglio sulle questioni della politica estera e della sicurezza e soprattutto il coinvolgimento del Parlamento europeo nei processi decisionali in queste materie. È questa la direzione giusta per creare una politica estera europea a cui possa seguire un’unione militare dotata di risorse credibili (anche grazie allo sviluppo di un’indispensabile capacità fiscale dell’Unione).
Quello che invece non serve alla difesa dell’Europa sono le scorciatoie e le finte soluzioni: far credere che si possa dotare l’Unione di una sua difesa eludendo il nocciolo della questione, che comporta alcuni indispensabili trasferimenti di sovranità dal livello nazionale a quello europeo, responsabilizzando le istituzioni UE e mettendole nelle possibilità di decidere. Credere e far credere che, tutto sommato, questo passaggio non sia così indispensabile, o che possa comunque verificarsi da solo in un secondo momento, fornirebbe l’ennesimo alibi a quelle forze conservatrici a livello nazionale, e perfino nell’Unione, che non vogliono modificare lo status quo del potere in Europa e mirano ad insabbiare il progetto di riforma avanzato coraggiosamente dal Parlamento europeo lo scorso novembre.
Ecco che davanti all’urgenza di procedere verso una vera difesa europea, il Consiglio europeo dovrebbe evitare soluzioni fantoccio e convocare, come richiesto dal Parlamento, una Convenzione per redigere una bozza di riforma del Trattati UE già nel 2025. Questa decisione avrebbe già un impatto politico enorme, mostrando al mondo intero e, in particolare, ai nemici dell’Europa che l’Unione sta procedendo verso un’unificazione sostanziale e finalmente ha iniziato a prendersi cura della propria sicurezza. Una simile prospettiva funzionerebbe da deterrente molto più potente rispetto all’aumento delle spese militari nazionali o alla creazione di finte unioni della difesa fondate sulla partecipazione volontaria degli Stati membri.